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Non servono eroine, ma una rivoluzione

Il nuovo film di Petra Volpe, Heldin, che racconta un turno di lavoro di un’infermiera d’ospedale, ci porta all’interno di un reparto di chirurgia viscerale e ci mostra, se ancora ce ne fosse bisogno, l’impossibilità di conciliare cure e assistenza di qualità con ritmi di lavoro forsennati

Floria è una brava infermiera, è capace di leggere i bisogni del paziente, si muove con sicurezza tra flebo, preparazione di medicamenti e macchinari ospedalieri, non ha paura di affrontare le paure di chi è malato gravemente, di toccare con mano dolore e disperazione. A Floria piace sentirsi utile, non ha problemi a lavorare a contatto con il corpo, anche quando è malato e debilitato, anche quando è incapace di autonomia. Floria ha però un grande problema: non ha tempo per fare davvero bene il proprio lavoro. 

 

Floria è la protagonista di Heldin (eroina, in italiano) – il nuovo film di Petra Volpe, regista acclamata de L’ordine divino – che sta circolando in questi giorni nelle sale cinematografiche della Svizzera tedesca. L’opera racconta un turno di lavoro qualsiasi nel reparto di chirurgia viscerale di un ospedale svizzero. Non ci sono manager cattivi a puntare una pistola dietro la schiena della protagonista, interpretata da Leonie Benesch, ma semplicemente il senso del dovere unito a una carenza di personale resa ancora più drammatica dall’assenza per malattia di una collega. C’è il cosiddetto sistema: quell’insieme di regole scritte e non scritte, di pratiche e discorsi, in cui i soggetti si trovano spesso incastrati, senza possibilità di uscirne. Quel sistema è fatto di risparmi e pochi investimenti sulle spalle di chi lavora e di chi ha bisogno di cure. 

 

La protagonista si ritrova a gestire, insieme a una sola collega, ventisei pazienti, oltre a dover affiancare una giovane studentessa al suo primo giorno di tirocinio. La macchina da presa segue Floria attraverso ogni stanza, ogni corridoio, ogni interruzione, restituendo con realismo la densità di un turno che si trasforma presto in una corsa contro il tempo. Ogni paziente ha una storia da raccontare: un uomo solo e spaventato in attesa di una TAC, una figlia che veglia il padre morente dimenticandosi di sé stessa, un paziente affezionato più al cane che alla propria salute, una giovane madre malata terminale che si chiede se abbia senso continuare le terapie, soltanto per citarne alcune. Floria non ha davvero tempo da dedicare all’ascolto, al rassicurare, allo scambio. L’infermiera sostiene tutto il peso di queste situazioni senza poter davvero affrontarle appieno e, quindi, senza poterle rielaborare. Il pubblico, con l’infermiera, riesce ad avvertire il dolore e il bisogno di attenzioni dei malati senza tuttavia poter far nulla. L’impotenza di Floria è la nostra impotenza. In questo meccanismo, il film si rivela squisitamente politico. Riesce a farci entrare in una situazione dove ci sono solo due possibilità di uscita: soccombere o cambiare radicalmente le cose.

La grandezza drammaturgica del film – sostenuta da una performance attoriale memorabile della Benesch, da riprese e un montaggio che trasformano la visione in un’esperienza sensoriale ed emozionale a tutto tondo – consiste proprio nel restituire il meccanismo entro il quale le emozioni, la sensibilità e le energie del personaggio protagonista, a contatto con i corpi malati e desiderosi di cure e attenzioni, sono annientate dalla catena di montaggio nella quale si trova incastrata. Ad aggravare le cose ci sono poi le richieste continue, le telefonate, le urgenze improvvise, le piccole violenze quotidiane – come quella di un paziente benestante viziato, arrogante, frustrato e aggressivo – che si accumulano senza tregua durante il turno fino all’esaurimento, fino all’errore, alla crisi.

 

Per realizzare il film, Petra Volpe ha condotto un’approfondita ricerca documentale e sul campo.  È partita dalla sua esperienza personale di convivenza con un’infermiera e, inoltre, ha preso spunto dal libro di Madeline Calvelage, Unser Beruf ist nicht das Problem – Es sind die Umstände (Il problema non è il nostro lavoro, ma il sistema) di Madeline Calvelage, una testimonianza diretta della realtà infermieristica, che è diventata fonte d’ispirazione fondamentale. La regista, inoltre, ha affiancato il personale sanitario in diversi ospedali svizzeri per osservare il loro lavoro quotidiano e si è avvalsa della consulenza tecnica di Nadja Habicht, una vera infermiera, che ha seguito lo sviluppo della sceneggiatura, le riprese e persino la formazione degli attori. Leonie Benesch, da parte sua, si è preparata attraverso un tirocinio nel reparto di chirurgia viscerale del Kantonsspital Liestal, apprendendo gesti e routine infermieristiche, nonché le dinamiche di un ospedale. Il risultato di questi sforzi fa di Heldin un capolavoro del cinema svizzero, che ci obbliga a guardare la crisi delle cure in corso negli ospedali, ma anche nelle case anziani e di cura, dove il personale medico-sociale è confrontato con gli stessi identici problemi.

Pubblicato il

08.04.2025 16:20
Mattia Lento

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