L'editoriale

“Nel 2017 le imprese svizzere hanno esportato materiale bellico in 64 paesi per un totale di 446,8 milioni di franchi, che in confronto al 2016 corrisponde a un aumento dell’8 per cento e a una quota dello 0,15 per cento delle esportazioni complessive di merci dell’economia svizzera”. La notizia, pubblicata negli scorsi giorni, fornisce dati apparentemente poco significativi, dietro i quali si nasconde però un problema: la Svizzera continua a esportare armi verso paesi in guerra e che violano in modo grave e sistematico i diritti umani. E in futuro questo genere di affari potrebbe avvenire con ancora più facilità, vista l’intenzione del Consiglio federale di allentare ulteriormente le condizioni per autorizzare le esportazioni. Non devono ingannare nemmeno i volumi all’apparenza piccoli, visto che la Confederazione si piazza pur sempre al 14esimo rango tra i più grandi esportatori di armi al mondo, come indica l’Istituto di ricerche sulla pace di Stoccolma.


Lo scorso anno sono state fornite armi per 9 milioni di franchi all’Arabia Saudita e ad altri stati arabi implicati nella guerra civile in Yemen, che ha causato una catastrofe umanitaria senza precedenti; la Turchia ormai vicina ad essere una dittatura, implicata in un conflitto interno e invasore in Siria, ha dal canto suo ricevuto materiale di guerra per 640.000. È evidente che facendo affari con paesi simili, il rischio che armi elvetiche vengano usate per commettere crimini di guerra e violazioni dei diritti umani è elevatissimo.
Ma invece di rendere più severo ed efficace il controllo sulle esportazioni e dunque alleviare le sofferenze di migliaia di esseri umani e prevenire catastrofi umanitarie, la Svizzera fa il contrario, come denuncia preoccupata Amnesty International: la regola secondo cui nessuna esportazione può essere autorizzata per paesi in conflitto non è mai stata applicata alla lettera (si pensi alle forniture agli Usa mai interrotte durante la guerra all’Afghanistan); nel 2014 è stata resa possibile l’esportazione verso stati che violano i diritti umani in modo grave e sistematico se è “minimo” il rischio che il materiale venga usato per commettere delle atrocità; dal 2016 un paese viene considerato “implicato in un conflitto” solo se questo si svolge direttamente nel paese importatore.


E ora il governo, su pressione dell’industria dell’armamento, parrebbe orientato ad autorizzare le esportazioni di materiale bellico nei paesi in guerra civile. Una prospettiva inquietante, tenuto conto oltretutto del rischio che le armi finiscano in mano a gruppi terroristi, come peraltro è già successo: i blindati Mowag usati da Boko Haram in Nigeria, le bombe a mano della Ruag usate da attentatori dell’Isis o le munizioni svizzere presenti sul teatro della guerra civile siriana.


Il preventivato allentamento dei controlli fa seguito al grido d’allarme lanciato da vari imprenditori del settore, che vivrebbe una situazione “precaria” e la cui esistenza sarebbe pertanto “in serio pericolo”, come (di conseguenza) migliaia di posti di lavoro.
Sarebbe però cinico e irresponsabile, oltre che contrario agli impegni internazionali sottoscritti dalla Svizzera, assecondare le pretese dei commercianti di morte. Sarebbe come legalizzare lo spaccio di droghe perché creerebbe “posti di lavoro”.

Pubblicato il 

01.03.18
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