L'editoriale

Succede spesso che i politici dichiarino di aver votato in un senso o nell’altro “per dare un segnale”. Nella maggior parte dei casi, soprattutto sotto elezioni, si tratta solo di segnali di fumo. Fumo gettato negli occhi dei cittadini. L’adozione da parte del Gran Consiglio ticinese (grazie ad un’ammucchiata social-leghista e alla “casuale” assenza in aula di qualche rappresentante borghese) dell’iniziativa dei Verdi “Salviamo il lavoro in Ticino” ne è un classico esempio.

Un’iniziativa che solo a parole sancisce il «diritto» di «ogni persona» ad «un salario minimo che gli assicuri un tenore di vita dignitoso», ma che in realtà è uno strumento totalmente inadeguato a contrastare il dumping salariale. Anzi, potrebbe addirittura favorire questo fenomeno già dilagante in Ticino.

Vediamone in breve le ragioni.
L’iniziativa non fissa alcun salario minimo che si possa ritenere garanzia di un tenore di vita «dignitoso» e non definisce questo concetto.
Essa conferisce questo potere (e concedendogli ampi margini di manovra) al Consiglio di Stato, cioè a quella maggioranza di destra che lo compone e lo comporrà, visceralmente contraria alle ingerenze dello Stato nell’economia e che comunque ha sempre mostrato di avere una visione un po’ strana del concetto di vita “dignitosa”. Basti pensare ai salari minimi da fame (attorno ai 3.000 franchi mensili, senza tredicesima) che vengono di regola fissati nei contratti normali di lavoro.
Nessun salario minimo legale potrebbe essere fissato laddove già esiste una regolamentazione a livello di contratti collettivi di lavoro, che come si sa sono spesso deficitari da questo punto di vista (si pensi a quelli dell’industria orologiera o tessile).
L’applicazione dell’iniziativa porterebbe insomma all’adozione di tanti salari minimi, a sdoganare il concetto di “dignità” a geometria variabile e a creare ulteriori e più profonde divisioni tra i salariati. Non è di questo che i lavoratori hanno bisogno.

Pubblicato il 

01.04.15
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