Noi non ridiamo

Una sciarpa di lana calda, leggera, grande da coprire testa, spalle e mani camminando contro il vento freddo. Non c’è regalo più gradito in inverno. In un angolo, l’etichetta: Prodotto da..., Milano, Italia. Più sotto: Made in China. Normale, così fan tutti, si produce dove i costi sono bassi, ci mancherebbe, per vendere dove il potere d’acquisto è alto, esattamente come sta capitando alla maggior parte delle merci in circolazione.


Se non che in questa etichetta c’è un particolare curioso: la sciarpa è prodotta a Milano ma è fatta in Cina. Made sarebbe il participio passato di to make, fare, costruire, fabbricare, tutti perfetti sinonimi di produrre. Ma qui i due verbi sono usati quasi in contrapposizione, evidentemente per esprimere due concetti distinti.
Diverse parole oggi hanno un significato vacillante. Non si è mai del tutto sicuri che un termine imparato a scuola potrà essere usato tranquillamente per tutto il corso della vita. Bisogna stare attenti per esempio a non mostrarsi troppo buoni perché si potrebbe venire accusati di buonismo. E non lasciarsi tentare dalla voglia di affrontare i problemi alla radice, perché ci potrebbe capitare di essere arrestati per radicalismo. E nemmeno desiderare delle riforme progressiste, perché oggi le riforme sono in realtà controriforme, meglio lasciare le cose come stanno. E attenzione a non fare la gaffe di qualificarci come utenti di un servizio pubblico, perché l’impiegato al di là dello sportello è tenuto a rispondere soltanto ai clienti. Se si vive a contatto con la povertà e a poco a poco si arriva a comprendere che la povertà non è una condizione naturale ma è causata dalla ricchezza, questa presa di coscienza viene bollata con l’espressione radicalizzatosi nelle banlieues ed è uno dei comportamenti considerati più gravi nel mondo di oggi.


I due diversi concetti nell’etichetta in questione sono dunque questi: produrre significa metterci i soldi, investire, finanziare. Esattamente quello che fa il produttore di un film: stanzia il capitale necessario, paga gli attori, fa la promozione, lo distribuisce nelle sale. Si rifà delle spese solo col passare del tempo. Chi materialmente fa il film è però il regista, gli spettatori infatti ricordano i registi, non i produttori. Bene, questo rimane un’eccezione. In tutti gli altri campi ormai chi fa è l’imprenditore. Promuovere l’economia, tutti desideriamo vivere in un buon sistema economico, significa rendere facile la vita agli imprenditori. Invece metterci le mani, la vista, il respiro, la propria vita in un oggetto, non entra in considerazione, non significa più niente. Le ragazzine cinesi, private dell’infanzia, senza la possibilità di studiare, senza i mezzi per curare la propria salute, senza uno stipendio che permetta loro di comprare i vestiti che cuciono, non possono nemmeno dire la sera: almeno ho fatto qualcosa di utile. No, la maglietta l’ha fabbricata Benetton, non tu.
Il fare vero deve diventare invisibile, il lavoro deve scomparire dalla vista e dal linguaggio. Non devono più esistere i lavoratori, perché la storia insegna che hanno la cattiva abitudine di discutere fra loro, mostrarsi la busta paga, giudicare lo stipendio, difendere i loro diritti. Dunque quello che sta succedendo a Bellinzona con le Officine non è soltanto una speculazione fondiaria sull’area a destra della stazione, ma qualcosa di molto più grave: si vuole far scomparire il loro lavoro, non se ne parli più. Al loro posto una massa di consumatori disposti a spendere e al massimo guardare le trasmissioni sul consumo intelligente.


Vorrebbero farci salire su un carro del carnevale di Bellinzona in cui hanno già preso posto il Governo ticinese, il Municipio di Bellinzona e il signor Meyer delle Ferrovie federali per recitare il numero comico consistente nel far entrare in una fabbrichetta di polistirolo i vagoni, gli assali, le ruote, le fresatrici, i torni delle Officine e poi le Officine stesse. Non saliremo su quel carro. Noi non ridiamo.

Pubblicato il

08.02.2018 10:40
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