Noi e i bimbi di Beslan

Durante il delirio omicida che ha investito Beslan una singolare domanda deve aver attraversato l’Europa: che cos’è l’Ossezia? In effetti accanto al ben più traumatico sgomento suscitato dalla strage, sicuramente molti europei hanno anche trovato in sé questo imbarazzante quesito: che in se stesso non avrebbe nulla di inquietante se non vivessimo in tempi di globalizzazione e di guerra globale al “terrore”. Chi vi scrive non ha difficoltà ad ammettere che alcune regioni dell’ex Unione Sovietica non dicono, alle sue orecchie, assolutamente nulla. Mentre altre suggeriscono qualcosa solo perché teatro, a loro volta, di guerre o efferatezze di stampo terroristico: la Georgia e la Cecenia in particolare. Eppure a questa beata ignoranza non è facile reagire facendo spallucce. Un velo di vergogna adombra il sentimento di pietà suscitato dalla strage, e qualche domanda viene a scombinare il senso di orrore di quell’efferatezza. Prima di tutto. Con quale coraggio intellettuale e morale giudicare una mattanza che – al di là dell’evidente inammissibilità etica – ha avuto luogo su un territorio che a molti è completamente ignoto, sconosciuto? Siamo certi di poter accampare il diritto di condannare, se quanto condanniamo è avvenuto in una regione di cui nulla o quasi conosciamo? Possiamo condannare senza capire? La domanda è certamente perniciosa, e forse anche soverchiamente cinica (in particolare se escludiamo dalla riflessione il “piccolo imperialismo” di Putin). Ma il quesito rimane intatto per quel che riguarda, in genere, il nostro rapporto con le stragi, il terrorismo e più in generale i fenomeni della globalizzazione. Della guerriglia cecena molti hanno conoscenza per le notizie che i giornali europei ampiamente hanno dato in merito. Ma dell’Ossezia non si sa quasi nulla. E quasi nulla si sa delle eventuali relazioni sommerse che – fra quella regione “incognita” e la più nota Cecenia – intercorrono. Tanto che l’apparire di un personaggio come il Presidente dell’Ossezia del Nord sugli schermi suscita, se non altro, un palpito di straniamento. “Dunque esiste un’Ossezia, addirittura un Presidente dell’Ossezia?”. Tale stupore (per chi ammette di averlo provato) dovrebbe farci riflettere. Siamo di fronte, purtroppo, a un rapporto con la globalità del mondo e con la globalizzazione che non ha nulla della “partecipazione” ai destini del pianeta: assomiglia, piuttosto, a un banchettare distratto fra questo e quell’altro fenomeno transitorio e provvisorio portatoci dalle cronache di spicco. Si sa, del nostro pianeta, quel poco che erompe dai telegiornali. E poi si dimentica, del pianeta, tutto ciò che non ha avuto il privilegio di erompere o che, superato dalla cronaca, non fa più notizia. Eppure il rapporto con la globalizzazione dovrebbe oggi accompagnarsi o coincidere con una necessità di conoscere “a priori” – quando le cose ancora non sono degenerate – quali focolai di tensioni, quali regioni a rischio, quali difficoltà economiche, politiche e sociali esistono nel pianeta e quale coscienza civica dovrebbe essere assunta affinché non si traducano in tragedia e in conflitto armato. Dovremmo insomma, della globalizzazione, avere una cognizione più responsabile. E davvero assai più “preventiva” rispetto alle tragedie di quanto lo sia il nostro modo di viverla fra un telegiornale e l’altro. Perché questo non accade? Perché ci troviamo di fronte alla più terrificante strage di innocenti della storia contemporanea senza nemmeno sapere su quale suolo si è consumata la loro agonia? Perché il massimo di consapevolezza di cui siamo capaci è quella, tutto sommato embrionale, dello sdegno e della pietà? Perché non conosciamo l’Ossezia? Perché non conosciamo – o releghiamo al di là della logica del sentimento e della sofferenza, mentre vi è strettamente connesso o addirittura subordinato – il movente dei “ribelli”, lo sfondo macabro eppure storico, reale della loro carneficina? Perché non sappiamo del mondo se non quanto tange e sfibra la nostra sensibilità? La risposta è nella storia che viviamo. Tanta informazione, pochissima cultura. Tanta cronaca, pochissima conoscenza. E ne siamo tutti vittime e colpevoli. Forse la globalizzazione è destinata a correre più veloce dell’informazione globale, e i media internazionali a metterla a fuoco solo quando è tardi per evitarne il fuoco. Invece della “guerra preventiva” di Bush si dovrebbe partire da una diversa “visione preventiva” dell’universo che ci circonda: auspicio che, purtroppo, è soltanto chimerico.

Pubblicato il

08.10.2004 00:30
Marco Alloni