Noi, bambini clandestini

Lo fanno attraverso il libro “Bambini proibiti” di Marina Frigerio, psicoterapeuta e psicologa dell'età evolutiva ma anche figlia d'immigrati che sin dagli anni Settanta si occupa di diritti dei migranti ed è una delle prime persone in Svizzera ad aver documentato già nel 1992 – come coautrice del libro "Versteckte Kinder” (Bambini nascosti) – la drammatica realtà a cui per decenni sono stati costretti migliaia e migliaia di minori. Costretti dal cosiddetto “statuto dello stagionale”, introdotto nella Legge federale sugli stranieri nel 1934 per affermare il principio, tuttora presente nella legge, secondo cui la politica migratoria elvetica va adeguata ai bisogni dell'economia.

 

I lavoratori stagionali non andavano dunque integrati ma chiamati solo durante la stagione (che durava nove mesi) e non si doveva dare loro la possibilità di farsi raggiungere dalla famiglia. Nel corso dei decenni la percentuale di stagionali tra i lavoratori immigrati è diminuita costantemente, le norme sono state più volte modificate e le condizioni per l'ottenimento di un permesso annuale qua e là allentate. Ma l'applicazione della legge è sempre stata caratterizzata da una certa arbitrarietà: «Alcuni Cantoni erano più rigidi di altri; alcuni funzionari più comprensivi; alcuni datori di lavoro, inoltre, avevano interesse a impiegare appena possibile i loro lavoratori stagionali tutto l'anno, altri preferivano garantirsi manodopera esperta e malpagata per i periodi di forte lavoro», scrive Marina Frigerio nel suo libro.

 

Un documento «toccante e doloroso, ma carico anche di speranza», lo definisce nell'introduzione don Luigi Ciotti (il noto sacerdote italiano che «sente prepotente dentro di sé il bisogno di giustizia»), nella convinzione che la «memoria del passato» serva alla «consapevolezza del presente». Il passato viene raccontato dall'autrice attraverso la ricerca storica e le testimonianze di decine e decine di persone. Il quadro che ne esce è raccapricciante: si narra di bambini che hanno vissuto costantemente con il terrore di vedersi arrivare in casa la polizia, condannati a un ambiente chiuso, spesso buio; di bambini con la paura dentro che non potevano frequentare le scuole, anche se a volte potevano approfittare delle scuole italiane (presenti nei grandi centri) o delle scuole clandestine che erano sorte soprattutto nella Svizzera romanda; di altri bambini che venivano invece “parcheggiati” presso parenti che vivevano in Italia nelle zone di confine oppure nei collegi ticinesi, di Lombardia e Piemonte.

 

Negli anni Sessanta e Settanta erano moltissime le famiglie costrette a vivere separate o in clandestinità. Si calcola che nelle case svizzere hanno vissuto tra i 10 e i 15 mila bambini clandestini. «E poi – sottolinea Marina Frigerio – ce n’erano altre migliaia e migliaia che vivevano separati dai genitori. Tutte le famiglie che hanno vissuto questi distacchi raccontano di grandi sofferenze e di grande solitudine. Mi ricordo di un uomo che avevo incontrato ai corsi serali Ecap (allora scuola della Cgil) per stagionali che regolarmente si addormentava sul banco. “Sarò io ad annoiarlo a tal punto?” mi domandavo. No. Non era così, mi raccontò un giorno: viveva nelle baracche e non riusciva mai a dormire per la nostalgia e dunque assumeva sonniferi che ogni sera, dopo una giornata di duro lavoro in cantiere, lo facevano crollare sul banco di scuola. Vi erano poi molti giovani migranti che si davano all'alcol, altri che cadevano in depressione e altri ancora che finivano nei reparti di psichiatria».

 

Ma questa era una realtà che la Svizzera ufficiale non ha mai voluto vedere e di cui le stesse organizzazioni per i diritti dell'infanzia cominciarono a occuparsi solo verso la fine degli anni Ottanta attraverso l'impegno per l'abolizione dello statuto dello stagionale. Nel suo libro l'autrice ricorda un episodio assai significativo: all'inizio degli anni Novanta partecipò alla trasmissione radiofonica “Radio 2 31 31” (che andava in onda su Rai radio) dedicata al tema dei bambini clandestini in Svizzera. Il centralino fu subissato di telefonate di ascoltatori che ben conoscevano il problema. «Da quelle testimonianze concitate si poteva capire la portata del fenomeno – fin lì sottaciuto anche dalla stampa italiana – e il forte coinvolgimento emotivo che suscitava».

 

Signora Frigerio, come se la spiega una presa di coscienza collettiva così tardiva?

C'era una diffusa volontà di rimozione. Anche da parte della comunità italiana, che per proteggere i connazionali clandestini preferiva non parlarne. Le Colonie libere e l'allora Sindacato edilizia e legno (poi divenuto Sindacato edilizia e industria e oggi Unia) organizzarono grandi manifestazioni a Berna a cui partecipavano decine di migliaia di persone, ma alla fine se ne è sempre parlato troppo poco.

 

Che cosa l'ha spinta a pubblicare il suo libro in lingua italiana oggi quando ormai la clandestinità per gli italiani è solo un ricordo?

Perché in Italia si sta ripetendo la storia. La molla che ha fatto scattare in me il bisogno di ricordare all'Italia chi siamo e da dove veniamo è stata la decisione presa nel 2007 dall'allora sindaco di Milano Letizia Moratti (e per fortuna nel frattempo revocata) di vietare le scuole materne e gli asili nido ai bambini senza permesso di soggiorno. E poi, guardando alla Svizzera, ci sono i figli dei sans-papiers e quelli rinchiusi nei centri di raccolta per richiedenti l’asilo in condizioni disumane non degne della vita di un bambino. Come persona, come mamma e soprattutto come psicologa dell’infanzia ho il dovere di ribellarmi e di affermare che così non va.

 

Il dramma dei bambini clandestini non ha dunque insegnato niente?

Ha insegnato poco, ma almeno una cosa molto importante e cioè la necessità di separare il diritto all’istruzione dal permesso di soggiorno. La lotta che abbiamo condotto e le iniziative di scuole clandestine sono servite a ottenere il diritto di ogni bambino in Svizzera a frequentare una scuola. Molti ex clandestini citati nel suo libro tendono a sottolineare gli aspetti più positivi della loro vita. Che tracce hanno lasciato allora gli anni di clandestinità? Le persone che ho intervistato hanno giustamente sottolineato come siano riuscite a superare il trauma ed hanno reso omaggio alle molte persone che le hanno aiutate. Da diverse testimonianze emerge una certa tensione tra le generazioni: da un lato quella dei genitori che si sentono terribilmente in colpa per aver costretto i figli a una vita così, per averli messi in collegio o tenuti nascosti in un appartamento e dall'altro i figli che per questo li rimproverano. Ho però notato che quando si riesce a inserire il loro vissuto personale nel contesto storico del tempo, l’atteggiamento dei figli nei confronti dei genitori cambia, perché i primi capiscono che i secondi non avevano altra scelta nell’Italia poverissima del dopoguerra: arrivavano qui in Svizzera e si ritrovavano una legge così che non avevano certo scelto. Parlare di queste storie è dunque utile perché aiuta a riconciliarsi col proprio passato e la propria famiglia, così come a sviluppare sentimenti di solidarietà nei confronti di coloro che oggi vivono condizioni simili.

Pubblicato il

25.01.2013 17:30
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