Nell’ultimo Angelus di agosto in San Pietro papa Francesco è tornato a riferirsi con preoccupazione al Nicaragua: “All’amato popolo nicaraguense: vi incoraggio a rinnovare la speranza in Gesù; ricordate che lo Spirito Santo guida sempre la storia verso progetti più alti; la Vergine Immacolata vi protegga nei momenti di prova…”.

Frasi rassegnate, in cui ci si affida alla “divina provvidenza”.

 

Tutt’altro rispetto a un anno fa quando il pontefice si era avventurato a paragonare il presidente Daniel Ortega a Hitler.

Erano mesi che in Vaticano si osservava un enigmatico silenzio nonostante seguitasse la feroce persecuzione che ha portato (dalla rivolta popolare repressa nel sangue nel 2018) all’incarceramento e successiva deportazione di due vescovi, 154 sacerdoti e 91 monache, privati pure della cittadinanza. Quasi che fosse intercorso una tacito accordo di non belligeranza fra il regime e la Santa Sede.

 

Riserbo assoluto osservato in primis dallo stesso arcivescovo di Managua, cardinale Leopoldo Brenes. “Nel timore che l’intero paese possa rimanere senza preti” aveva azzardato l’ex comandante guerrigliera sandinista Dora Maria Téllez (anch’essa da tempo in esilio). Tanto che nella diocesi rurale di Matagalpa i preti sono stati ridotti a un terzo.

 

Fino a che il mese scorso altri sette presbiteri sono stati arrestati e spediti nello stato pontificio. Non solo: dopo aver cacciato il nunzio apostolico, chiuso le radio cattoliche, proibito le processioni all’aperto, confiscato i beni ecclesiastici e requisita (esattamente un anno fa) l’università dei gesuiti, da ultimo è stata introdotta la tassa sulle elemosine. La copresidente (nonché consorte) di Ortega, Rosario Murillo, ha infatti esteso il regime fiscale dell’economia privata anche alle donazioni a istituzioni religiose (con imposte dal 10 al 30%).

 

Non si salvano neanche le chiese protestanti. Inclusi i predicatori delle sette fondamentaliste, che pure in certe circostanze erano stati promossi dal clan degli Ortega proprio in contrapposizione agli ecclesiastici cattolici. Mentre l’esoterica doña Rosario, nel suo quotidiano discorso radio/tv alla nazione, si erge a unica custode della dottrina del suo dio “todo poderoso”.

 

E sono proprio le negoziazioni fra Managua e Washington per la liberazione di 13 pastori dell’organizzazione evangelica Puerta de la Montaña (con sede nel Texas) che hanno propiziato in questi giorni il rilascio e trasferimento di 135 prigionieri politici nel Guatemala del presidente progressista Bernardo Arévalo. Che vanno ad aggiungersi ai 222 tradotti negli Stati Uniti nel febbraio dello scorso anno.

 

Si sta convertendo dunque in pratica ordinaria in Nicaragua lo sbarazzarsi dalle proprie galere dell’ingombro di qualsiasi tipo di oppositore (o pseudo tale) politico, civico e ora pure di fede religiosa. Sapendo comunque che i più resteranno in silenzio nel timore che i loro familiari finiscano dentro; oltre che privati dei loro beni.

 

Al contempo in questo modo l’autocrazia nica può contare su una sorta di benevolenza di Washington che si limita a seppur severe sanzioni ad personam nei confronti degli orteguisti; senza per questo espellerla dal prezioso CAFTA, il trattato di libero commercio fra Usa e i paesi dell’istmo centroamericano. A differenza dell’ultrasessantennale feroce embargo che sta riducendo Cuba alla fame (per di più inclusa nella lista dei paesi terroristi). Mentre il Nicaragua ospita da tempo “senza colpo ferire” la base radar e di spionaggio russa del Cerro Murukuku.

 

La gran parte degli ultimi liberati/esiliati è giovanissima. Fra loro i due muralisti che nel novembre scorso festeggiarono l’incoronazione della connazionale Sheynnis Palacios a Miss Universo (che da allora non ha più potuto fare ritorno a casa) dipingendone il volto per le vie della cittadina di Estelí.

Nessuno degli indigeni miskitos della Costa Atlantica, recentemente imprigionati, è stato invece rilasciato. Anzi, di alcuni/e di loro non si sa neppure dove siano finiti.

 

Come se non bastasse il regime ha messo al bando altre 1.500 ong (compresa Save the Children) che si aggiungono alle oltre 3.500 chiuse e spogliate dei propri beni dal 2018. Dove per ong non si intendono solo le organizzazioni non governative senza fini di lucro legate alla cooperazione internazionale (gli ormai tanto famigerati  “agenti stranieri” di putiniana memoria). Ma della società civile e dell’associazionismo sul territorio: sindacale, imprenditoriale, culturale, sportivo, del volontariato... Con l’obbligo per quelle superstiti di “collaborare con lo stato”. Il che ha provocato ulteriore “profonda preoccupazione” presso l’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’ONU.

 

È stato poi modificato il codice penale per permettere d’ora in avanti di perseguire i nicaraguensi e gli stranieri che violino le leggi locali anche fuori dal territorio nazionale. Mentre la polizia potrà effettuare qualsiasi intervento repressivo anche senza un mandato giudiziario.

 

Da ultimo la (a tutti gli effetti) prima ministro Murillo, per nulla amata, è arrivata ad esautorare lo storico capo della scorta del marito (di fatto ormai inesistente) quale ennesima purga dei funzionari pubblici di cui non si fida. Oltre ad aver deposto il responsabile dell’intelligence dell’esercito; e sottoposto agli arresti domiciliari nientemeno che il proprio cognato, generale Humberto Ortega, ex ministro della difesa durante la rivoluzione sandinista. Che si era avventurato a paventare “un’implosione” della tirannia per la “impraticabile successione dinastica” del figlio Laureano.

 

Del resto il Nicaragua è ormai equiparabile a una Corea del Nord in stile latinoamericano; con la differenza che laggiù si viene a sapere tutto. E dove soprattutto è ancora permessa (anzi favorita) l’emigrazione. Per un motivo preciso: le rimesse familiari (ammontate lo scorso anno a quasi 5 miliardi dollari) degli oltre 800mila nicas espatriati, che salvano il bilancio delle famiglie e dell’intera economia nicaraguense. Con il clan degli Ortega che continua ad arricchirsi servendo i cartelli dei narcos inviando containers di cocaina dal porto di Corinto (vedi gli ultimi intercettati in Russia e in Italia); col traffico di migranti che giungono a Managua a caro prezzo su voli charter da Cuba, Haiti, Marocco, Libia e persino dall’Afghanistan (via Kazakistan) con destinazione finale (per terra) gli Usa; oltre al business delle miniere d’oro; e la requisizione dei conti correnti e delle proprietà dei dissidenti che hanno lasciato il paese. Mentre risulta poco significativa la ricaduta economica della presenza commerciale e dell’appoggio di Russia, Cina e Iran, in cambio di un voto nelle assise internazionali.

Pubblicato il 

10.09.24
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