Storia di classe

«Abbiamo promesso ufficialmente all’Unione sovietica nei colloqui 2+4, così come in altri contatti bilaterali tra Washington e Mosca, che non intendiamo sfruttare sul piano strategico il ritiro delle truppe sovietiche dall’Europa centro-orientale e che la Nato non dovrà espandersi di là dai confini della nuova Germania né formalmente né informalmente».
Juergen Chrobog, diplomatico tedesco, marzo 1991

In nome di quello che è stato definito un elementare dovere internazionalista, da sempre, il movimento operaio ripudia la guerra. Nessuna pace fra le classi, nessuna guerra fra popoli. Basterebbe quest’ovvietà per zittire chi, pretendendosi di sinistra, guarda con malcelata simpatia all’invasione in corso da parte delle forze russe.


Altrettanto indifendibili e molto più numerosi sono però coloro che, sempre da sinistra, si uniscono alla pletora di richieste di invio di armamenti, profilandosi talvolta in favore di un intervento diretto da parte dell’alleanza atlantica. Nessuna pace fra le classi, nessuna guerra fra popoli.


Un’inchiesta del giornale tedesco Der Spiegel ha portato alla luce degli stralci di verbali, desecretati nel 2017, sui negoziati fra gli esponenti della Nato e il governo di Mosca. Non che servissero prove scritte rispetto all’espansionismo bellicista dell’imperialismo occidentale: i bombardamenti “umanitari” che hanno sigillato il definitivo smembramento della Jugoslavia per giustificare il mantenimento di truppe armate statunitensi sul suolo europeo dopo il crollo del patto di Varsavia sono lì a ricordarcelo. Così come l’annichilimento della Libia. Così come le parole dell’ex segretaria di Stato dell’era Clinton, Madeleine Albright, rispetto alle centinaia di migliaia di vittime civili in seguito alla criminale invasione dell’Iraq: «Ne valeva la pena».


L’Europa si sveglia oggi e si rende conto che la guerra esiste. Poche persone sembrano volersi ricordare che dal 2014 a oggi più di 14.000 persone hanno perso la vita all’interno delle repubbliche separatiste.
Dei privati mettono a disposizione le loro abitazioni, le frontiere si aprono per i profughi e i permessi di lavoro vengono allestiti con la stessa rapidità dei corsi di lingua gratuiti.


E per fortuna che sia così. Speriamo che questo possa inaugurare un cambio di paradigma per tutte quelle persone che fuggono dalla miseria e dal dolore, anche quando queste ultime non dovessero essere bianche e cristiane.


Speriamo che la popolazione in armi che difende la propria terra sia definita resistenza, e non terrorismo, indipendentemente dalla realtà geografica che essa occupa. Speriamo, ma non ci crediamo troppo, perché se in un conflitto la speranza è l’ultima a morire, la prima è quasi sempre la verità.


Oggi come ieri il movimento operaio è chiamato ad agire “nel ventre della bestia”, evidenziando quelle scomode ipocrisie del mondo occidentale, garante della pace e dei diritti a fasi alterne e in funzione di chi gli si contrappone. In funzione delle vie che ogni giorno si aprono, siano esse di gas o di “seta”. Contro ogni guerra e contro ogni logica che rende queste guerre ineluttabili.

Pubblicato il 

23.03.22
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