Neorealismo, non solo cinema

Il neorealismo? È stata un'importante corrente letteraria e (soprattutto) cinematografica nata ed esplosa in Italia nei primi anni del secondo dopoguerra in reazione ed opposizione al ventennio fascista. Questa è l'idea comune che se ne ha. Un'idea giusta soltanto in parte, oltre che incompleta. Perché una corrente importante anche se misconosciuta del neorealismo è quella che si è manifestata nella fotografia. E, oltretutto, a partire proprio dagli anni del fascismo. Un neorealismo dunque nato e cresciuto sfruttando ed in parte assecondando il fascismo, prima di saper camminare con le sue gambe, ma che sempre ha saputo proporre esiti artistici, documentari ed espressivi di assoluto valore. È questa l'inattesa prospettiva che propone la mostra "Neorealismo", in corso fino al 18 novembre al Fotomuseum di Winterthur (accompagnata dal bel catalogo edito dal Christoph Merian Verlag di Basilea, uscito in italiano da Admira Edizioni di Milano).

La mostra di Winterthur, curata come il catalogo da Enrica Viganò, si estende sul periodo compreso fra il 1932 e il 1960. Quasi trent'anni dunque, molti di più di quelli che in senso stretto sono fatti coincidere con la fase più intensa del neorealismo cinematografico (il decennio fra il '43 e il '53). La scelta del 1932 quale data d'inizio del Neorealismo in fotografia non è casuale: essa coincide con l'inaugurazione, il 28 ottobre a Roma, della Mostra della Rivoluzione Fascista, che fino al '34 sarebbe stata visitata da ben 4 milioni di persone. È da quella mostra che il regime fascista dà avvio ad una campagna propagandistica multimediale senza precedenti, una campagna nella quale la fotografia avrà un ruolo centrale, come rileva Giuseppe Pinna nel suo saggio in catalogo.
È dunque il periodo fascista ad aver determinato gran parte delle condizioni sociali e culturali che fanno da sfondo al Neorealismo, tanto che i primi scatti attribuibili ad una corrente neorealista sono ben precedenti alla guerra. Ed è dal '32 che, rileva Pinna, «gli italiani si trovano in massa a vedere i film, i cinegiornali, i giornali illustrati, le mostre, a sentire la radio, a leggere i libri e i quotidiani, a vedere le mostre d'arte e gli spettacoli teatrali. Tutto doveva concorrere a fare in modo che all'ideologia fascista corrispondesse anche uno stile di vita». E questo rimescola i valori: la letteratura non è più la massima forma espressiva, il primato culturale viene preso dai media di massa, primo fra tutti il cinema. Di questo e di una particolare comunanza con il cinema approfitta pure la fotografia, in particolare grazie all'Istituto Luce, fondato già nel '25 quale supporto a cinema e fotografia nella loro opera di propaganda. A ciò vanno ad aggiungersi novità nella stampa come il fotogiornalismo nei rotocalchi e la diffusione della pubblicità.
Compito essenziale di cinema e fotografia in epoca fascista era di rappresentare in maniera diretta la nuova Italia che il regime voleva fondare. Ma proprio con gli stessi mezzi del Realismo fascista, osserva Pinna, «si poteva far vedere anche l'Italia largamente prevalente che il fascismo voleva negare, quella povera, arcaica, analfabeta. Quando il Realismo provava ad emanciparsi dalle necessità della propaganda, la censura fascista provvedeva a stroncare sul nascere ogni possibile equivoco». Accade così che diversi "fotografi del reale" con intenti documentaristici o etnografici lascino nel cassetto per molti anni i loro lavori: è il caso di Luciano Morpurgo, Giacomo Pozzi Bellini e Pasquale de Antoniis. Al crollo del fascismo, e sorprendentemente rispetto ai più diffusi luoghi comuni, il passaggio dal realismo fascista a quello anti-fascista si configura più come un rapporto di continuità che come una cesura: «rimangono invariate molte istanze di fondo, nelle tematiche affrontate come nelle loro forme espressive, prima fra tutte la necessità di rappresentare un paese reale, finalmente liberato dalla menzogna fascista, con paesaggi veri, campagne vere, città vere, vera gente popolare, anche se in un significato diverso da quello inteso dal fascismo, affinché questa rappresentazione svolgesse una funzione di tipo civile, quando non più esplicitamente politico».
La mostra di Winterthur ed il catalogo propongono circa 250 lavori di 75 autori. Alcuni di essi sono grandi nomi della fotografia italiana, come Gianni Berengo Gardin, Mario Dondero, Mario Giacomelli, Giancolombo, Ugo Mulas, ma anche intellettuali attivi in altri campi come il regista Alberto Lattuada e l'etnologo Fosco Maraini. Fra tutti questi autori non c'è stata, a differenza di quanto accadde nel cinema, l'intenzione di costituire un movimento se non una scuola o la consapevolezza di appartenervi. Il neorealismo fotografico fu frammentato, atomizzato, senza parole d'ordine, dunque con intenti ed esiti anche contraddittori. Per questo non sorprende il ritardo nella catalogazione di tutto il corpus fotografico di questo periodo. E neppure sorprende che del Neorealismo fotografico si sia parlato finora più per luoghi comuni o per analogie con il cinema. Analogie del resto in parte anche giustificate, se è vero che stili, tecniche e soggetti finirono cooptati da una forma espressiva all'altra. E che dopo la Liberazione, proprio come per il cinema, vi fu un'esplosione produttiva e qualitativa: «la libertà d'espressione e la necessità di ricostruire una nuova identità italiana stimolano la febbre della documentazione, della testimonianza del vero, dell'indagine sul territorio», osserva Viganò. Da qui il grande interesse per l'inchiesta fotogiornalistica o per l'indagine etnografica, rivolta in particolare a sud con i reportage di Ernesto de Martino, Franco Pinna, Arturo Zavattini e Ando Gilardi.

Pubblicato il

09.11.2007 03:00
Gianfranco Helbling
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