L'editoriale

Per tutelare i diritti nel mondo del lavoro, in particolare quello alla salute, le buone leggi e le campagne di prevenzione non bastano. Se un operaio muore, si ferisce o si ammala gravemente svolgendo la sua attività professionale non è quasi mai una “fatalità” (come si abusa dire) e dunque, sempre, in ogni singolo caso, andrebbero accertate le responsabilità ed eventualmente sanzionati i colpevoli in modo proporzionale al danno arrecato.

 

Nella realtà le cose non vanno quasi mai così: sulla criminalità d’impresa si indaga poco e quando lo si fa la macchina della giustizia spesso si inceppa a causa di una giurisprudenza e di leggi che tendenzialmente favoriscono l’impunità. È una piaga diffusa a livello internazionale e un problema che investe quasi tutte le democrazie. Ci sono però lodevoli eccezioni, come i processi che si stanno celebrando in Italia per i morti causati dall’amianto delle fabbriche di Eternit e che vedono come imputato eccellente il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny.


Processi a cui una certa “Svizzera bene” guarda però con supponenza, quasi con disprezzo: la stampa nazionale (in particolare quella svizzerotedesca) non ne parla o ne parla a sproposito e con il chiaro intento di denigrare la giustizia italiana. Perché, evidentemente, non può essere che un imprenditore elvetico e ricchissimo venga accusato “addirittura” di omicidio.


Del resto, siamo il paese che è stato la centrale mondiale della lobby del cemento-amianto, che per decenni, nel nome del profitto, ha lavorato alla negazione e all’occultamento delle evidenze scientifiche sulla pericolosità dell’amianto e organizzato la disinformazione degli operai e dell’opinione pubblica a livello internazionale, ma in cui nessuna procura ha mai aperto un’indagine sull’operato della Eternit e della famiglia Schmidheiny. E ancora oggi nell’informazione mainstream predomina la narrazione di uno Stephan Schmidheiny “pioniere” dell’uscita dall’amianto.


Ma grazie alle meticolose indagini della Procura di Torino e dei suoi magistrati specializzati nella lotta al crimine d’impresa, sappiamo che il miliardario svizzero è stato esattamente l’opposto e che ha fatto di tutto per sfruttare l’amianto e spremere gli operai come limoni fino a quando gli è stato possibile.


Non per forza la verità storica coinciderà alla fine con la verità giudiziaria, perché anche in Italia gli ostacoli al raggiungimento di una qualche forma di giustizia non mancano: i tempi sono biblici, c’è sempre la minaccia della prescrizione, c’è sproporzione tra le garanzie per l’imputato e i diritti delle vittime. Ma perlomeno in Italia si celebrano i processi. Quello iniziatosi lo scorso 9 giugno a Novara, in cui Schmidheiny è accusato di omicidio intenzionale per la morte di 400 persone, è uno dei più importanti (qui il nostro servizio) e, comunque vada, contribuirà a fare ulteriore luce sulla tragedia dell’amianto.


L’imputato che «odia gli italiani» (come ha avuto modo di dichiarare l’anno scorso commentando il nuovo rinvio a giudizio) è assente dall’aula, ma è più che presente nel processo: non solo perché è rappresentato da legali di prim’ordine che lavorano ottimamente per far guadagnare tempo al loro assistito (e farne perdere alla giustizia), ma anche perché è attivissimo fuori dal processo con la sua politica dei risarcimenti alle vittime: 20-30.000 euro per ogni morto ammazzato dall’amianto con cui “compra” la rinuncia alla costituzione di parte civile da parte dei familiari (leggi qui). Gli farà risparmiare qualche milione in caso di condanna, ma non gli consentirà di sfuggire al giudizio e non gli garantisce alcuna impunità.

 

Un’operazione che, fondamentalmente, gli è invece riuscita in Svizzera, grazie a norme sulla prescrizione fatte su misura per lui e a qualche franco che ha “generosamente” messo a disposizione del Fondo per le vittime dell’amianto. La giustizia italiana, pur con tutti i suoi limiti, si conferma un esempio in materia di lotta al crimine d’impresa.

Pubblicato il 

23.06.21