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Nella bufera Cuba tira dritto
di
Stefano Guerra
Lo scalpore suscitato in aprile dalle severe condanne a 75 oppositori e dalle fucilazioni di tre dirottatori non si è ancora placato, ma Cuba non sembra preoccuparsene troppo. Oggetto di dure prese di posizione dell’amministrazione Bush, di una recrudescenza delle attività sovversive dei terroristi anticastristi di Miami, in rotta di collisione con l’Unione europea, Fidel Castro ha tirato dritto come usa fare nelle circostanze più avverse. Lo ha fatto stringendo più volte i panni addosso alla “dissidenza” interna, ormai liquidata senza nessun distinguo come un’accozzaglia di mercenari al soldo degli Stati uniti e dei loro accoliti. Della stretta repressiva in atto a Cuba e del contesto internazionale che in parte la spiega ha parlato sabato scorso a Bellinzona in un dibattito organizzato dall’Associazione per l’aiuto medico al Centro america (Amca) l’ambasciatrice cubana in Svizzera Teresita de Jesus Vicente Sotolongo. Nata nel 1957 all’Avana, dopo gli studi in relazioni internazionali all’Universidad de La Habana è entrata a far parte del Ministero degli affari esteri. Nella sua ventennale carriera in seno al servizio diplomatico, Teresita Vicente ha ricoperto varie cariche nelle ambasciate di Cuba nei paesi nordici. Sposata, un figlio, dal maggio 2000 rappresenta il suo paese in Svizzera. Si tratta della sua prima esperienza quale ambasciatrice. Area l’ha incontrata a margine del recente dibattito.
Signora Vicente, che importanza ha oggi la Svizzera nella politica estera di Cuba?
In primo luogo, la Svizzera è sede di numerose organizzazioni internazionali nelle quali Cuba ha un ruolo molto attivo. A livello bilaterale, le relazioni fra Cuba e la Svizzera sono molto positive e da qualche anno si stanno intensificando. La Svizzera rappresenta gli interessi di Cuba a Washington e quelli degli Stati uniti all’Avana svolgendo un lavoro di alta qualità. Negli ultimi anni si è sviluppata una cooperazione allo sviluppo molto apprezzata. La Svizzera finanzia vari progetti di grande importanza per l’economia cubana. Nel settore agricolo, per esempio, è in corso il progetto Postcosecha che mira – attraverso la costruzione di silos – alla conservazione delle sementi dopo il raccolto. Ma ci sono anche altri esempi, come l’aiuto alla Scuola internazionale di cinema di San Antonio de los Banos: si tratta di un progetto che ha un impatto non solo a Cuba, ma in tutta l’America latina. Noi nutriamo speranza in questa cooperazione e speriamo che la stessa possa estendersi ad altri settori.
Le severe condanne al carcere e le esecuzioni dello scorso mese di aprile hanno influito in maniera negativa sulle relazioni Svizzera-Cuba?
No, assolutamente. Il fatto che la Svizzera non sia membro dell’Unione europea ha facilitato le cose: le autorità elvetiche hanno dichiarato che le relazioni proseguivano normalmente.
La stretta repressiva dei mesi scorsi è stata motivata da Fidel Castro con la necessità di evitare una crisi migratoria che servisse da pretesto agli Stati uniti per aggredire Cuba. Si è trattato di una scelta ponderata con attenzione, ma a quasi cinque mesi dai fatti non le pare che il costo politico delle condanne e delle esecuzioni sia stato troppo pesante per Cuba?
A quasi cinque mesi di distanza da quei fatti la situazione internazionale non è migliorata, anzi. In questi cinque mesi la politica dell’amministrazione Bush nei confronti di Cuba non è cambiata. Alti funzionari e diplomatici statunitensi hanno continuato a emettere dichiarazioni dure e tendenziose su Cuba. C’erano e ci sono motivi reali che ci portano a pensare che si stia preparando un’aggressione contro Cuba. Subito dopo i fatti di aprile il rappresentante cubano a Washington ha ricevuto dal Dipartimento di Stato una nota di protesta nella quale si avvertiva che qualora Cuba non fosse stata capace di fermare i sequestri di aerei le autorità statunitensi avrebbero considerato la situazione come una minaccia alla sicurezza nazionale. E dietro questo linguaggio noi sappiamo che c’è una tendenza all’azione. Vorrei aggiungere che la stampa internazionale ha presentato i processi di aprile come ingiusti, privi delle necessarie garanzie. Ciò è falso: dal dicembre 2001 abbiamo una legge che sanziona le attività terroristiche con pene severe, quelle che poi sono state applicate.
D’accordo, ma era necessario condannare a morte i sequestratori?
Noi capiamo che in Europa queste condanne possano essere state mal recepite, ma il pericolo era troppo grande. Noi stessi speriamo che in futuro non si ripresentino i presupposti per applicare di nuovo misure così dure.
Negli ultimi mesi si è assistito a un’offensiva mediatica del governo cubano nei confronti dell’opposizione. Sono state pubblicate le testimonianze di agenti della sicurezza dello Stato che per anni hanno infiltrato i ranghi della dissidenza interna, e un libro appena uscito discredita uno degli oppositori di lungo corso più conosciuti, Elizardo Sánchez, che secondo gli autori per anni sarebbe stato un informatore della sicurezza cubana. Uno fa fatica a credere che tutti gli oppositori siano dei “mercenari”, come li definisce il governo…
Elizardo Sánchez e altri dissidenti con grande eco in Europa, come per esempio Oswaldo Payá, entrano certamente nella categoria dei mercenari. Sono persone pagate dal governo statunitense che non rappresentano nessuna opinione dissidente. Non hanno nessun peso nella società cubana e hanno una eco soltanto all’estero in quanto pedine di una guerra ideologica. La vera dissidenza sta nel popolo cubano stesso. A Cuba esiste la diversità di opinione ed essa si esprime in varie istanze, prima fra tutte l’Assemblea del potere popolare (il parlamento cubano, ndr) dov’è rappresentata la gran maggioranza dei gruppi sociali.
Fidel Castro non manca mai di ricordare, con ragione, l’alto livello di coscienza politica e sociale raggiunto dal popolo cubano grazie alla Rivoluzione. Ma allora, due generazioni non sono sufficienti perché le cubane e i cubani possano esprimersi senza imposizioni, per esempio attraverso elezioni o una stampa libere?
Beh, dipende da cosa si intende per elezioni libere. Io credo che se il 97 per cento della popolazione partecipa alle elezioni e che se ogni cinque anni si elegge un parlamento, allora si deve parlare di elezioni libere. Inoltre, il nostro sistema è democratico nella misura in cui garantisce la partecipazione dei cittadini attraverso delle organizzazioni sociali che li rappresentano, e non attraverso dei partiti politici che dipendono dal denaro di cui dispongono o da appoggi imprenditoriali. Questo sistema capitalista non ci piace, non fa parte della nostra storia, e pertanto non lo sviluppiamo. E poi non dimentichiamoci che da oltre quarant’anni viviamo sotto embargo. Il giorno che ci libereremo da questa imposizione potremo fare molte più cose di quelle che abbiamo fatto finora.
Il “periodo especial” e le misure di liberalizzazione economica e finanziaria adottate per far fronte al collasso del blocco socialista hanno portato a un approfondimento delle disuguaglianze sociali. Uno ha l’impressione che le divise entrate soprattutto grazie allo sviluppo del settore turistico non siano investite a beneficio della popolazione e che la breccia fra chi ha accesso ai dollari e chi può contare solo sui pesos cubani continui ad allargarsi…
Tutte le divise generate dal turismo, dalle imprese miste, eccetera vanno ad alimentare il budget dello Stato. Lo Stato cubano destina il 13 per cento del prodotto interno lordo alla salute pubblica e il 12 per cento all’educazione. Anche durante la crisi degli ultimi 15 anni, lo Stato cubano ha continuato a offrire ai suoi cittadini tutte le garanzie sociali fondamentali. Certo, si sono create delle disuguaglianze, ma queste non riguardano l’accesso ai servizi di base: tutti hanno lo stesso diritto all’educazione e alla salute gratuita, tutti hanno lo stesso diritto alla pensione eccetera. Chi dispone di dollari può consumare di più, ma nell’accesso ai servizi essenziali tutti sono uguali.
Pubblicato il
29.08.03
Edizione cartacea
Anno VI numero 32-35
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