Nel paese in cui ci si ignora… riprendiamoci i libri

Avete mai notato quei “Dio c’è” scritti in grande sui viadotti delle autostrade italiane? Li ho sempre letti come se fossero seguiti da un punto di domanda: interrogativi angosciosi di chi esprime un desiderio, più che una certezza. Così è per la patria: siccome non siamo ben sicuri che esista, dobbiamo parlarne. La Svizzera c’è. È questo lo slogan che ci perseguita da qualche tempo e che è costato alla Confederazione molti milioni di franchi. Credo che sia uno dei nostri tratti caratteristici quello di interrogarci sull’identità collettiva. Forse perché la nostra è una Willensnation e dunque ogni giorno è necessario rinfrescare le ragioni che ci fanno stare insieme. Questo per gli uomini di buona volontà. Gli altri – la maggioranza – sono indifferenti o si attaccano ai miti. La Svizzera c’è, d’accordo. Ma gli Svizzeri s’ignorano tra di loro; per esempio ignorano che in Svizzera si parla anche la lingua italiana. Per conoscersi non basta ogni mezzo secolo riempire l’atrio della stazione di striscioni colorati e organizzare treni speciali. Per conoscersi bisogna parlarsi, incontrarsi e anche scontrarsi durante tutto l’anno. E siccome questo non avviene, ecco che ogni tanto organizziamo una festa nazionale per supplire alla conoscenza feriale. Il ventotto settembre tocca noi. Ma io, pur essendo stato invitato, non ci sarò: preferisco lasciare il posto a qualcun altro (in Ticino non mancano gli scrittori) perché ho un debole per la ferialità. E, anche, perché non mi sembra coerente, prima scandalizzarsi per lo sgarbo che ci ha fatto Expo.02 ignorando la nostra lingua e poi andare a Bienne in pompa magna a battere la grancassa cantonticinese. Credo che la festa falsi sempre un po’ le cose. Si grida troppo durante le feste, ci si ubriaca sempre un po’ e il giorno dopo si ha un senso di vuoto: la sera leoni, la mattina coglioni. E poi, che cosa ha a che fare la letteratura con la nazione? La parola del poeta si rivolge all’individuo. È una forma di resistenza al potere, ai luoghi comuni, alla miseria dell’homo consumens. Una garanzia di libertà: la parola del poeta non si lascia manipolare. Io amo il paese in cui vivo. Le sue colline e la sua luce mi hanno ferito a morte. Il paese in cui vivo è per sé solo tutto il mondo, come per Julien Green «ogni uomo è per sé solo l’umanità tutta intera». Dunque il paese in cui vivo è il paradigma del mondo, che è la vera patria. Ma il mio compito è dimostrarlo con la parola. La letteratura ha a che fare con le lettere, con il linguaggio. Esprimersi in versi e in prosa in modo non banale, dando la mano agli altri: questo il mio impegno civile. La festa, con le sue luminarie e le sue bandierine, m’immalinconisce. M’interessa l’incontro. E il mio incontro in terra romanda l’ho già fatto: nel monolito di Jean Nouvel ho incontrato Erica Pedretti, un’importante scrittrice svizzera di origine cecoslovacca, con la quale ho letto qualche testo in italiano davanti a un pubblico che non capiva. Ve l’ho detto: la Svizzera è un paese in cui ci s’ignora. Ci parliamo senza capirci. La vera festa, secondo me, non è andare a Bienne in passeggiata scolastica, ma conoscerci a uno a uno. La letteratura è una passeggiata solitaria che non ammette intruppamenti. La vera festa, dunque, sarebbe quella di leggere (anche) i nostri scrittori: quei passeggiatori solitari che ci fanno scoprire paesaggi sconosciuti. *) scrittore

Pubblicato il

27.09.2002 06:00
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