Nel girone dei burger

Negli Stati Uniti sfuggire al fast food è praticamente impossibile. I famosi ristoranti semplici e anonimi sono ovunque. Basta trovare un centro commerciale e sicuramente da un lato della strada ci sarà il ristorante della McDonald’s e dall’altro quello di Taco Bell. Pochi metri più in là si vedrà l’insegna della Pizza Hut. Gli americani ritrovano, ovunque vadano, i «sapori di casa», perché un cheese burger fatto a San Francisco ha esattamente lo stesso sapore di quello di New York, Atlanta o Miami. Il giro d’affari è astronomico. «Nel 1970 gli americani hanno speso circa 6 miliardi di dollari nei fast food, nel 2000 ben 110 miliardi» rileva Schlosser. Praticamente ogni giorno almeno un americano su 4 entra in uno di questi anonimi locali. Il tipico americano, dicono le statistiche, mangia ogni settimana circa tre hamburger e quattro porzioni di patate fritte. Il datore di lavoro più importante I ristoranti sono ormai il principale datore di lavoro privato americano. Naturalmente il leader del settore è McDonald’s. Oggi nel mondo è più conosciuto della Coca Cola. Negli Stati Uniti è il principale acquirente di carni di manzo e di maiale e di patate e anche il principale distributore di giocattoli. I prezzi dei fast food sono sempre convenienti. «Venite a mangiare per un dollaro», si leggeva recentemente in un cartellone pubblicitario affisso davanti ad un fast food di Washington. E i clienti non mancano, soprattutto tra i giovani e tra i ceti meno abbienti. Come fanno a tenere i prezzi così bassi? I fast food hanno adottato chiare strategie. Hanno puntato prima di tutto su lavoratori giovani. «Nessun altra industria americana è così dominata da adolescenti» rileva Schlosser precisando che nei fast food due lavoratori su tre hanno meno di 20 anni. È il caso di Eliza Zamot, una ragazza di sedici anni, che lavora in un quartiere popolare di Colorado Spring. Si alza alle 5 e un quarto del mattino e alle sei è già al lavoro. Per un’ora tira fuori dal frigo tutto quello che le serve per la giornata. Alle sette arrivano i primi clienti e per sette ore Eliza sta alla cassa o dietro i fornelli a preparare i pasti. Poi se ne torna a casa stanca. Si butta sul divano e accende la Tv. Molti di questi giovani percepiscono il salario minimo, che negli Stati Uniti è di 5,15 dollari all’ora. «Il 90% dei dipendenti dei fast food riceve una paga oraria. Molti lavorano su chiamata» precisa Schlosser rilevando che i responsabili del personale fanno bene attenzione a non far superare le 40 ore di lavoro settimanali per non dover pagare gli straordinari e tenere il più possibile bassi i costi del personale. Organizzare sindacalmente questi lavoratori non è facile vista la giovane età, l’alto tasso di rotazione, e l’ampio ricorso al lavoro a tempo parziale. Lavorare in un fast food può essere rischioso. Non sono rari i casi di rapine a mano armata finite tragicamente. Molti locali hanno rafforzato le misure di sicurezza (video camere, sistemi di allarme ecc.), ma ugualmente «ogni mese circa quattro o cinque dipendenti di fast food sono uccisi sul lavoro, in genere durante una rapina» rileva Schlosser. In America ormai per le donne l’omicidio è la principale causa di morte sul lavoro, ma difficilmente i media ne parlano. L’agricoltura si trasforma Il fast food ha cambiato anche il volto dell’agricoltura. Le patate un tempo venivano prodotte da tanti piccoli o medi contadini. Adesso la produzione è sempre più controllata da poche grosse imprese alimentari, come per esempio la Simplot di John Richard Simplot, il barone delle patate in America. Durante la seconda guerra mondiale Simplot si è arricchito vendendo patate in polvere all’esercito. Nel 1953 ha cominciato a specializzarsi nella produzione di patate fritte congelate. Oggi Simplot, Lamb Weston e McCain controllano l’80% del mercato americano delle patate fritte congelate. La concorrenza è feroce. «Solo qualche centesimo di differenza su una libbra può far vincere o perdere un contratto importante» precisa Schlosser. Per ogni porzione da un dollaro e mezzo di patate, solo forse 2 centesimi finiscono nelle tasche dei produttori, si legge nel libro. Sono i piccoli e medi contadini a subire sempre più pressioni e sempre più spesso sono posti davanti al dilemma di ingrandirsi o lasciar perdere e vendere i campi. Chi compra sono le grandi imprese. Oggi la Simplot controlla un’estensione più grande dello stato del Delaware. Anche il mercato della carne è continuamente sotto pressione. Negli ultimi 20 anni quasi mezzo milione di contadini hanno dovuto voltare le spalle ai loro ranch. Il mercato della carne macellata è di fatto controllato da 4 imprese che posseggono anche il 20% dei manzi vivi. Questi animali possono essere immessi sul mercato quando i prezzi tendono ad aumentare per provocarne la caduta, rileva Schlosser descrivendo le difficoltà nelle quali si dibattono molti contadini. C’è chi è talmente disperato da suicidarsi, come ha fatto Hank, un contadino del Colorado sposato e padre di due figli che Schlosser aveva conosciuto durante uno dei sui viaggi nel Colorado. Si scopre così che il tasso di suicidio tra i contadini e gli allevatori americani è tre volte più alto della media nazionale. La situazione non cambia se si analizzano gli allevamenti di polli concentrati piuttosto nel sud del paese. Anche qui dominano le grandi imprese e chi non regge la concorrenza è costretto a cambiare mestiere. I fornitori di carne Ma forse le storie più raccapriccianti sono quelle sugli allevamenti e sui macelli americani. Un tempo questi ultimi erano concentrati soprattutto nelle grandi città del nord. I lavoratori erano ben pagati e sindacalmente protetti. Il tasso di rotazione era molto basso. Adesso i macelli sono finiti fuori dalle città e «per tagliare i costi sono stati tagliati i salari» rileva Schlosser. A macellare e a tagliare la carne sono soprattutto lavoratori stranieri o stagionali, vale a dire persone disposte ad accettare anche difficili condizioni di lavoro. Molti subiscono infortuni. Infatti, il grosso problema dei macelli e delle fabbriche d’imballaggio sono i ritmi di lavoro. Non per niente questo è un settore a forte tasso di rotazione e soprattutto a forte tasso d’infortunio. Gli esempi che cita sono tanti. C’è quello di Kenny Dobbins. Era arrivato alla Monfort Beef Company nel 1979. Allora era un ragazzo grande e forte che non temeva la fatica. In 20 anni di lavoro ha accumulato una lista impressionante di incidenti sul lavoro che per poco non gli sono costati la vita. Adesso ha la schiena rotta, un infarto alle spalle, i polmoni bruciati dal troppo uso di cloro per disinfettare e un arto che ha bisogno di un sostegno metallico. Quando alla fine ha chiesto alla ditta di indennizzarlo si è ritrovato sulla strada senza lavoro. Adesso vive dell’assistenza pubblica. Questo non è un caso isolato. Le statistiche provano che lavorare nei macelli e nelle fabbriche per l’imballaggio della carne è molto pericolo. Almeno un lavoratore su quattro si è ferito o lamenta dolori professionali. Molte mansioni richiedono sforzi fisici notevoli che mettono a durissima prova la schiena. Tagliare per ore con un coltello facendo sempre lo stesso movimento provoca infiammazioni agli arti difficilmente guaribili. Il pericolo poi di tagliarsi è sempre in agguato. Le statistiche parlano di dita amputate, arti schiacciati dalle macchine tritacarne o da pesi che cadono, occhi accecati da oggetti sospesi, persone ustionate da acqua troppo calda e altre uccise o persino decapitate da macchinari o seghe. Secondo Schlosser molti incidenti non sono neppure denunciati o sono banalizzati per risparmiare sui costi dell’assicurazione malattia. Carente anche l’igiene È facile capire che lavorando in queste condizioni anche l’igiene ne risente. Non sono rari i casi di campioni di carne nei quali sono state individuate sostanze fecali. Chi mangia questi prodotti può rischiare di ammalarsi gravemente. Quando si compra una confezione di carne non si sa con certezza da dove provenga e quindi se è stata trattata nel modo più igienico, senza contare – rileva Schlosser – che per prepararla tanta gente ha rischiato di infortunarsi. Lui ha deciso di non mangiare più nei fast food e di ridurre al massimo il consumo di carne. Dopo aver letto il suo libro, molti altri avranno sicuramente fatto lo stesso.

Pubblicato il

07.09.2001 02:00
Anna Luisa Ferro Mäder
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