Nave francese, amianto indiano

A livello internazionale, sta diventando un affare di stato, mentre, in politica interna, è ormai un caso simbolico, che potrebbe per la prima volta squarciare la cappa di silenzio che da anni circonda lo scandalo dell’amianto in Francia. La portaerei Clemenceau, disarmata nel ’97 e ora destinata ad essere rottamata a Alang, in India (stato di Gujarat), dopo tre giorni di braccio di ferro alla fine della scorsa settimana ha avuto il permesso dall’Egitto di attraversare il canale di Suez, ma è ancora in attesa della sentenza della Corte suprema indiana, che dovrebbe dare un parere definitivo il 13 febbraio prossimo, dopo averne già dato uno negativo il 6 gennaio scorso. In altri termini, la Clemenceau potrebbe essere obbligata a fare marcia indietro e a tornare nel porto di partenza, a Tolone, se la Corte suprema indiana deciderà che c’è stata violazione della convenzione di Basilea e che l’India non è tenuta ad accogliere un relitto pieno di amianto. Verrebbe così esaudita la richiesta di quattro organizzazioni ecologiste – Comitato anti-amianto Jussieu, Andeva (associazione nazionale vittime dell’amianto), Greenpeace e Ban Asbestos – che hanno fatto ricorso in tribunale in Francia per impedire l’esportazione di un rifiuto tossico che «rappresenta un rischio per i lavoratori indiani». Ma il tribunale ha respinto il ricorso. Ora la richiesta di riportare a Tolone la Clemenceau proviene dal mondo politico: i Verdi, poi tutta l’opposizione chiedono al governo di rispettare la convenzione di Basilea, che impone ai paesi che ne hanno la tecnologia (ai paesi Ocse in particolare) di occuparsi dei propri rifiuti tossici. Ma il governo francese fa rispondere il ministero della difesa: la Clemenceau non rientra nei casi presi in considerazione dalla convenzione di Basilea, perché era e resta una nave militare. «La Clemenceau è una nave di stato – dicono alla Difesa – e non un relitto». Dopo tre giorni di braccio di ferro con il Cairo, sembra grazie a un dialogo diretto tra Jacques Chirac e Hosni Mubarak, l’Egitto ha ceduto e dato il permesso al convoglio – le 32mila tonnellate della Clem trainate da un rimorchiatore olandese, il cui capitano è un russo dal nome evocatore, Serguei Potemkin – di passare attraverso il canale di Suez. In attesa della decisione della Corte suprema in India, dove c’è già stata una manifestazione di protesta contro l’arrivo della Clem. La Corte suprema indiana prenderà atto a fine settimana delle testimonianze raccolte in Francia sulla presenza di amianto nella Clem (vedi box accanto). L’amianto in Francia è stato proibito tardi: solo dal 1° gennaio ’97 è bandito da edilizia e costruzioni navali, mentre altri paesi europei lo avevano proibito già qualche anno prima. Nel ’99 è stato anche varato un fondo di indennizzo per i malati e le famiglie delle vittime dell’amianto, che raddoppia i versamenti della Sécurité sociale. Secondo l’Andeva, ci sono in Francia almeno 3 mila decessi l’anno – dieci al giorno – dovuti all’amianto e le previsioni sono spaventose: 100 mila morti di qui al 2025, mentre una ricerca recente parla addirittura di 200 mila decessi previsti. Visto che l’amianto, le cui caratteristiche tossiche erano peraltro conosciute da un secolo, ha cominciato ad essere utilizzato in modo massiccio nell’edilizia, nella costruzione navale, nell’industria automobilistica, in quella elettrica, nei vagoni ferroviari ecc. negli anni ’50, a causa dei lunghi anni di gestazione della malattia, la Francia avrà una punta di malati di cancro e altre malattie causate da questo materiale verso il 2015. Secondo uno studio, tra il ’45 e il ’96, in Francia sono stati importati 75 chilogrammi d’amianto per abitante. Adesso, la Francia affida all’India il delicato e rischioso processo di de-amiantaggio della Clemenceau. Secondo Pascal Husting di Greenpeace France, «è un caso emblematico, con un’economia mondializzata che impone ai paesi del sud gli effetti nefasti delle nostre economie del nord. Nei prossimi anni, ci sarà un afflusso enorme di questo tipo di navi piene d’amianto che verranno spedite verso siti che non sono per nulla preparati per decontaminare secondo le norme in vigore nell’Unione europea. È un vero e proprio caso di doppio standard». Un rapporto di Greenpeace ha stabilito i «costi umani dello smantellamento delle navi europee in fin di vita». Le navi vengono smantellate per recuperare l’acciaio, che ha un valore di mercato. Ma questa attività è estremamente pericolosa perché i relitti contengono, dice il rapporto, molte «sostanze nocive: amianto, vernici al piombo, Pcb, diossina, residui di carburanti, cadmio, arsenico». Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, questa attività di smantellamento delle navi è «una delle professioni più pericolose al mondo». Il ministero della difesa francese sostiene che la Clemenceau è già stata de-amiantata. In effetti, due società vi hanno lavorato, ma il contratto prevedeva soltanto di togliere l’amianto «visibile e direttamente accessibile»; cioè sarebbero state tolte nemmeno 70 tonnellate, mentre la Clem ne conteneva 220. “Nessuna informazione sui rischi” Fra le testimonianze raccolte in Francia sulla presenza di amianto nella Clemenceau, vi è quella di un ex marinaio bretone, Etienne Le Guilcher, oggi malato di asbestosi (una malattia respiratoria): «di amianto ce n’era dappertutto sulla Clemenceau – racconta – di fatto dappertutto dove c’era calore e rischio di incendio. C’era persino l’uomo-amianto, un tipo incaricato di andare a recuperare il pilota nel caso di un crash aereo in un atterraggio sul ponte. Restava tutta la giornata vestito di amianto: cappuccio, scarpe, tuta, guanti, tutto era in amianto! È morto di mesotelioma (cancro della pleura). All’epoca tutte le navi erano piene di amianto, nel porto militare come in quello commerciale di Brest. Tutti nella regione lavoravano nell’amianto, sia per la costruzione, riparazione, manutenzione delle navi che per la navigazione». Ma, aggiunge Le Guilcher, «non abbiamo mai avuto nessuna informazione sul rischio amianto. Non ci proteggevamo. Ho saputo solo nel ’99 che la direzione dell’arsenale aveva firmato nel ’76 un decreto che imponeva l’utilizzazione di protezioni (guanti, maschere, ventilazione). Ma il decreto non è stato reso noto né applicato. Quando ho visto le condizioni di lavoro nei cantieri indiani ho avuto i brividi nella schiena».

Pubblicato il

20.01.2006 04:00
Anna Maria Merlo