All’ora del tramonto Mustafa si reca come al solito alla moschea incassata sotto la palazzina. È un nudo locale cosparso di tappeti con il breve seggio da cui predica l’imam appoggiato contro la parete, su cui svettano alcuni poster della Mecca. Mustafa è musulmano. Dopo una decina di minuti esce dalla preghiera e torna alla sua postazione. Porta il caffettano e uno zuccotto bianco sulla testa; adesso ha cominciato a fare freddo, anche al Cairo, e Mustafa indossa un pullover che spunta da sotto le altre ampie maniche. Un bauab come lui guadagna circa 50 franchi al mese. Fra il socialismo e l’islam ha scelto l’islam: la beneficenza frutta più dell’assistenza sociale. I condomini gli passano qualche banconota di tanto in tanto (due lire, dieci lire, venti lire) e con quelle mantiene i quattro marmocchi e la moglie annidati nello sgabuzzino, accanto al garage: quello che lui chiama la mia casa. Dorme su una panca di legno fra i fumi degli scarichi e i gatti che si aggirano tra le auto. All’uscita dalla moschea ha notato lo sguardo di Girgis, l’altro bauab. Girgis ha dieci anni meno di lui, la barba rasata con puntiglio, un caffettano azzurro e un tatuaggio con la croce copta impresso sul polso. Mustafa non si sorprende di quel sorriso: anche lui durante la festa dell’aid al fitr, alla fine di Ramadan, era inondato di mance dai condomini. Ci mancherebbe altro che il 24 dicembre non spetti al copto quello stesso sorriso beffardo che aveva lui durante le feste musulmane (anche se poi il loro Natale dovrebbe cadere in un’altra data, pensa...). «Bella giornata, eh Girgis?» gli fa, riannodandosi le maniche, cercando di non dare a vedere l’invidia. Girgis nicchia. Si tocca il piccolo malloppo racchiuso nelle tasche dei pantaloni e dà un calcio con i sandali a una latta vuota, che vola sul marciapiede davanti alla scala. Il nugolo di sabbia che si solleva è la dimostrazione che in quei giorni il buon Girgis è stato più impegnato a non perdersi il passaggio dei cristiani (del suo condominio) che a ripulire l’entrata dell’edificio. Ad ognuno di loro ha sfoderato il suo sorriso migliore: «Buon Natale, buone feste, tanti auguri». A Mustafa viene in mente come durante l’aid al fitr per lui era lo stesso festival, la stessa fiera di ricchezza improvvisa che adesso spettava a Girgis. Fatti due calcoli gli passa però per la testa che, in fondo, lui è un privilegiato. I copti al Cairo sono il 10 percento, si dice: le probabilità di arricchirsi sono tutte a mio favore. Arricchirsi. Che ironia. Ha però quella fitta di invidia che anche i privilegiati provano per chi, per un attimo, ha assunto il loro posto. Si siede sui gradini e assesta la sciarpa intorno al collo, continuando a scrutare l’ironico sollazzo del copto. Fa un freddo peggiore del caldo asfissiante che ammorba la città d’estate; soprattutto quando il sole sparisce dietro le nuvole, e il lieve tepore del pomeriggio si trasforma in ghiaccio. È così che passerà il 24 e il 25 dicembre Mustafa, il portinaio dello stabile numero 45 di Sharia (Via) Champollion. Osservando lo sguardo ridente di Girgis, ripulendo le scale di malavoglia, tornando per altre quattro o cinque volte a pregare in moschea, pensando a che cosa possa significare per lui il Natale. Concludendo: niente. Lo passerà gingillando il rosario islamico fra le dita e ripetendo fra sé i 99 nomi di Allah, alcuni dei quali ha dimenticato. L’Altissimo, il Misericordioso, il Tollerante, il Sapiente, il Paziente... Ma lo passerà tornando ad avere anche un brivido di gelosia quando, dal cellulare dell’inquilino al primo piano – il giovane ingegnere Burtus che sta sempre incollato al telefonino e se lo porta in strada per parlare con la fidanzata – sentirà squillare quella strana musichetta che qualcuno gli ha detto essere “roba da cristiani”: gingelben... gilgelben... Chissà se anche Butrus pasha avrà lasciato una lauta mancia al buon Girgis!

Pubblicato il 

20.12.02

Edizione cartacea

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