Salute & Lavoro

«Nelle ultime settimane le autorità federali e cantonali hanno fatto ripetutamente appello alla responsabilità delle imprese: laddove questa viene meno, le misure di protezione della salute cessano di essere efficaci, e quindi un intervento delle autorità a protezione della salute di tutti si impone», dice Giangiorgio Gargantini, segretario regionale di Unia Ticino, che spiega come da diversi giorni il sindacato riceva decine di testimonianze di lavoratori che denunciano condizioni di lavoro che non rispettano le indicazioni minime fornite dalle autorità sanitarie. Area ha raccolto le testimonianze nei tre settori: industria, vendita, edilizia e artigianato.Qui invece un'infografica sui diritti dei lavoratori legata alle problematiche del Coronavirus

 

Industria: «Chiudete le fabbriche»

«Abbiamo paura. Devono chiudere la fabbrica». È un grido che si fa sempre più diffuso, quello che arriva dall’interno delle fabbriche. Una paura comprensibile, da luoghi dove si lavora in spazi stipati a decine, a centinaia nelle realtà più grandi. Alcune aziende, le meglio organizzate e con più mezzi a disposizione, hanno già preso dei provvedimenti da diverse settimane, prima dell’annuncio del contagio in Ticino. Ad esempio, la Consitex (gruppo Zegna), dove i turni sono stati ridotti da otto a sei ore. Nelle due ore d’intervallo, gli spazi vengono disinfettati. Un’ulteriore misura è il raddoppio dei pullman e delle navette che trasportano le lavoratici e i lavoratori dal proprio domicilio al luogo di lavoro, per evitare l’affollamento sui mezzi. Al momento di andare in stampa, mercoledì 11 marzo, Swatch avrebbe fatto un passo ulteriore: ha chiuso i suoi tre stabilimenti in Ticino. La misura coinvolge quasi duemila operaie.
Il problema è che ogni azienda fa quel che vuole. «Aiti si è mossa bene, diffondendo prontamente alle sue affiliate delle informazioni importanti» dice Vincenzo Cicero, responsabile industria per Unia Ticino. «Il problema è che le aziende si sono mosse in maniera autonoma, in ordine sparso. Chi in maniera lodevole, chi invece non facendo nulla. Soprattutto dal profilo delle precauzioni igienico-sanitarie».
Quel che manca dunque è un coordinamento centralizzato dello Stato. «L’autorità cantonale competente non ha diramato nessuna direttiva sanitaria su come comportarsi nelle fabbriche. Un conto è suggerire di mantenere le distanze tra colleghi in un ufficio, un altro in una fabbrica dove vi lavorano trecento persone». Basti pensare alle criticità che possono nascere nelle mense aziendali, dove lavorano centinaia di persone. Operai che comprensibilmente hanno paura per la loro salute e quella dei propri cari. Per questo, la stragrande maggioranza di loro è decisamente contraria alle ventilate misure aziendali di farli restare ad alloggiare in Ticino, nel caso in cui un’autorità decidesse di chiudere le frontiere. Di questi tempi, non hanno nessuna intenzione di star lontani dalla moglie o dai figli, nel caso questi ultimi avessero anche solo un semplice raffreddore. «Quella di voler tenere in Ticino gli operai frontalieri, è puramente una scelta economica. Non ha nulla a che vedere con una scelta di ordine sanitario», chiosa Cicero.
Dal punto di vista delle perdite retributive degli operai, non si segnalano grandi irregolarità o quanto meno diffuse. Nelle industrie è abbastanza conosciuta la prassi del ricorso alla procedura del lavoro ridotto, finanziata dalla disoccupazione pubblica e garantisce ai lavoratori un salario nella misura dell’80%. Non mancano i soliti furbetti, ma sembrano limitati a qualche caso isolato. Questi tentano di ridurre l’orario giornaliero del dipendente, accumulando le ore negative in un monte ore da utilizzare a piacimento dall’impresa quando, si spera, dovesse tornare la richiesta del mercato.  Ma come detto, la richiesta che si fa viepiù pressante dalle fabbriche è: «Chiudete. Non siamo carne da macello». Chissà che Swatch non faccia scuola.

 

Vendita, è la legge della giungla

Le immagini del centro commerciale FoxTown vuoto sono l’emblema di quanto stia avvenendo nella vendita cantonale. Ma la verità va oltre quelle vetrine vuote, ossia il trattamento riservato a molte lavoratrici. In sintesi, salvo pochi esempi coscienziosi, le venditrici sono abbandonate a loro stesse. «Le molteplici catene internazionali presenti nel centro commerciale, avrebbero tutto il diritto di chiedere il lavoro ridotto – spiega ad area Manuela Fraquelli, sindacalista di Unia –. Ciò consentirebbe di salvare i posti di lavoro, di garantire alle dipendenti un salario all’80% finanziato dalla pubblica assicurazione disoccupazione. Il problema è che molte ditte, essendo estere, la procedura del lavoro ridotto non la conoscono». Così, alla fine, il conto della crisi innescata dal virus lo pagano le venditrici. Ieri, la proprietà del Fox Town ha annunciato la chiusura del centro commerciale per due settimane. Cosa ne sarà delle retribuzioni delle dipendenti, non è dato a sapere.

 

Nella vendita in generale sono diverse le tecniche per scaricare sulle dipendenti la crisi da virus. Si va dal chiudo tutto alle vacanze forzate. Ma l’espediente più in voga è limitare l’impiego delle dipendenti alle poche ore garantite da contratto, seppur di norma lavorassero a tempo pieno. La paga passa così dalle normali 45 ore a otto o sedici settimanali. Succede nelle grandi imprese della vendita al dettaglio, vedi Coop e Migros, dove il lavoro a percentuale molto ridotta è una pratica ben diffusa. Grandi catene internazionali nell’abbigliamento, seguono lo stesso modello. «Non tutte, per fortuna. Alcune s’informano e avviano la procedura del lavoro ridotto, oggi molto semplificata».


Altra problematica segnalata nella vendita è «l’invito che diventa un obbligo» rivolto al personale frontaliero di restare a dormire in Ticino. «L’albergo glielo trovano e glielo pagano, ma resta il fatto che imponi a una persona di rompere con la vita familiare. Perché d’imposizione si tratta, perché il ricatto è semplice: se no ti lascio a casa» spiega la sindacalista.


A questa pratica stanno ricorrendo aziende attive nei più disparati settori commerciali, dalla grande distribuzione alle stazioni di servizio, dove è noto quanto le paghe siano manifestamente basse.
Altre segnalazioni negative provenienti dal commercio al dettaglio, riguardano le precauzioni di tutela della salute, delle impiegate e dei clienti. In particolare, le cassiere di ben poche catene di vendita al dettaglio sono dotate dei guanti, necessari per chi maneggia monete e banconote in continuazione. Comprensibilmente, la paura serpeggia tra le cassiere, ma non solo.

 

Come nel caso dell’industria, mancano direttive chiare delle autorità cantonali sulle prescrizioni sanitarie focalizzate sui posti di lavoro nei casi di epidemia. Lasciare alle aziende la responsabilità di muoversi liberamente in questo campo non è per nulla rassicurante. A differenza di altri rami, si segnala infine la latitanza delle associazioni padronali di categoria, Disti e Federcommercio. Entrambe sono state singolarmente silenti sia sui possibili provvedimenti di precauzione sanitaria sia sulle misure di salvaguardia dei posti di lavoro. L'unico annuncio mediatico è stato esprimere soddisfazione per gli ottimi incassi dopo il divieto di far la spesa in Italia.   

 

Timori sui cantieri e padroni fantasiosi

La situazione sui cantieri ticinesi è tesa, il nervosismo e la paura si fanno sentire sempre più, sia in relazione al timore di contrarre il famigerato virus, sia per quanto riguarda la possibile imminente chiusura delle frontiere che da quasi una settimana sta tenendo con il fiato sospeso l’economia cantonale. Oggi, la stessa Società impresari costruttori, sezione Ticino, ha annunciato la chiusura dei cantieri per due settimane. Altrettanto ha fatto l'Unione delle associazione dell'edilizia ticinese.

«C’è parecchia agitazione da parte di tutti, lavoratori e impresari», conferma Dario Cadenazzi, responsabile del settore edilizia per Unia Ticino. Agitazione che sta portando il padronato ad escogitare «risposte schizofreniche e inaccettabili», come le definisce Cadenazzi, che racconta: «Da un lato c’è chi come Antonio Caggiano, imprenditore, invita le imprese ad avere il coraggio di fermare i cantieri e concedere due settimane di vacanze ai propri dipendenti, dall’altro abbiamo i documenti che provano che Vide-Visa Sa sta facendo circolare tra i dipendenti un documento da sottoscrivere per una richiesta di congedo non pagato a causa della chiusura di un grosso cantiere sul quale stanno lavorando. Insomma, ne stiamo vedendo di tutti i colori».


Anche Igor Cima, responsabile del settore artigianato di Unia Ticino, racconta di situazioni tese e crescente preoccupazione tra i lavoratori: «Mi riferiscono di condizioni nelle quali non è possibile mettere in atto le misure di prevenzione previste dalle autorità, come la distanza minima tra le persone o le misure igieniche consigliate per proteggersi. C’è anche una certa paura di contagio che porta a non voler lavorare con il tale o il tal altro perché viene da una zona più colpita o perché la moglie è risultata positiva al Covid-19». Insomma, situazioni non sempre facili da gestire, come spesso succede quando emergono le paure delle persone e le loro reazioni non sono sempre dettate dalla razionalità.


A questa agitazione per la propria incolumità, si aggiunge l’incertezza sulla chiusura delle frontiere in un settore che non ha solo molti frontalieri, ma anche tanti lavoratori con permessi B, C o L provenienti dall’Italia e che si chiedono se restare qui o meno, perché all’idea di non poter rientrare in patria dalle proprie famiglie per lungo tempo non sono tranquilli.


Un aspetto che preoccupa l’edilizia, già normalmente sotto pressione per i tempi di consegna (vedi articolo a pagina 7), è un rallentamento o addirittura un blocco dei lavori che porterebbe inevitabilmente a ritardi nelle consegne e quindi a dover far fronte a eventuali malus al committente: «È un aspetto che spaventa parecchio il settore, c’è da augurarsi una certa clemenza da parte dei committenti, soprattutto nel pubblico, ma anche nel privato», spiega Cadenazzi.


Un’altra questione ancora poco chiara e che desta grosse preoccupazioni tra i lavoratori è quella del pagamento del salario in caso di quarantena.

Per il sindacato la questione è chiara: se il lavoratore è stato messo in quarantena dall’autorità, questo costituisce un ostacolo personale soggettivo a poter lavorare, senza che ne sia responsabile, quindi secondo l’articolo 323a al.1 del Codice delle Obbligazioni il diritto al pagamento del salario rimane, senza discussioni. Questo vale anche nel caso di quarantena collettiva, sia che questa venga imposta dall’autorità svizzera che da un’autorità estera, in questo caso dal Governo italiano. Il padronato ha un’altra posizione, anche se sembra si stia un po’ “ammorbidendo”.



Pubblicato il 

13.03.20

Dossier

Nessun articolo correlato