C'è da vedere, senza ombra di umorismo, con senso della realtà, se la presidente della Confederazione Karin Keller-Sutter non si soffermerà solo, apprezzandolo, sul “discorso liberale, in un certo senso molto svizzero” che il vicepresidente degli Stati Uniti, Vance, ha tenuto a Monaco, strattonando l’Europa che avrebbe perso i suoi valori liberali, e se oserà anche prendersi tra le mani uno studio appena pubblicato da un prestigioso istituto universitario svizzero. O per dirci che facciamo “meglio” dei libertari americani o fors’anche “nel senso molto svizzero di ascoltare il popolo”. Il Centro di ricerche congiunturali della Scuola politecnica federale e dell’Università di Zurigo hanno dimostrato e sono giunti alla conclusione che la Svizzera è un Paese ancora più ineguale degli Stati Uniti, dove l’ineguaglianza è istituzionalizzata come espressione del merito individuale o come raggiungimento da parte dei migliori del “sogno americano”. Infatti, dalla ricerca risulta che, in Svizzera, il gruppo dell’uno per cento dei più ricchi possiede il 42 per cento del patrimonio (della ricchezza) nazionale. C’è di più, per altri aspetti “politici-liberali”, ancora più significativo: quella proporzione è cresciuta del 27 per cento a partire dal 1980, tanto che 19 cantoni su 26 rilevano differenze patrimoniali molto più forti di quelli del “modello americano”. Nel canton Nidvaldo, ad esempio, è il 70 per cento della ricchezza che appartiene al “top 1 per cento” (seguito da Svitto, Obvaldo e Basilea Città). Si è giunti a queste conclusioni esaminando l’evoluzione dei patrimoni dal 1969 al 2018, sulla base dei dati delle amministrazioni fiscali cantonali: quindi, su un periodo significativo e sul quanto scaturisce dalle dichiarazioni fiscali. Queste ultime, tuttavia, non considerano ovviamente le evasioni e le fughe paradisiache fiscali, possibili ed esercitate solo dai patrimoni consistenti. Che si sa rilevanti o tutt’altro che trascurabili. Come sono possibili tali concentrazioni di ricchezza? Emergono almeno tre motivi, dimostrati. Il primo è di natura “politica”: la sistematicità dei continui sgravi fiscali. Spiegherebbe un quarto dell’aumento della ricchezza dei più fortunati. A ciò si aggiunge la deleteria concorrenza fiscale tra i cantoni, con la mobilità di contribuenti, che si spostano dove si paga meno. Secondo motivo, l’importanza delle successioni dirette, non imposte a livello federale e neppure nella maggior parte dei cantoni. Più del 60 per cento dei 300 più fortunati sono ereditieri; solo l’8 per cento sono dirigenti attivi (a differenza degli Stati Uniti dove il 69 per cento dei 400 più ricchi ha fondato la propria impresa). Terza spiegazione: la riforma dell’imposizione delle società (altra trovata “liberale”), con l’esonero degli apporti in capitale. La quale ha favorito i trasferimenti dalle imprese verso gli azionisti, tendenza rafforzatasi negli ultimi anni con l’entrata in vigore della riduzione delle imposte sull’utile. La presidente della Confederazione o il Consiglio federale (o anche il governo ticinese) dovrebbero finalmente scoprire che c’è un rapporto intrinseco e sostanziale tra democrazia e fiscalità (d’altronde riconosciuto anche nella Costituzione); i fatti ci dicono che risulta ignorato o maltrattato, a grave danno della democrazia. E che, soprattutto di questi tempi, in fatto di democrazia, non abbiamo proprio nulla da imparare e tanto meno da imitare dagli Stati Uniti, terra dell’ineguaglianza per eccellenza. |