"Molti sono qui solo peerché hanno soldi da spendere"

Lunedì 19 dicembre 2005, 8.45 ora svizzera, 15.45 ora di Bangkok. Quando lo raggiungiamo sul cellulare, Richard Werli è appena sceso da un ferry, sulla via del ritorno da una comunità di pescatori che vive su delle isolette al largo di Khao Lak, circa 150 chilometri a nord di Phuket, lungo la costa occidentale della Tailandia devastata dallo tsumani di un anno fa. Il giornalista del quotidiano ginevrino Le Temps, profondo conoscitore dell’Asia e autore del recentissimo Tsunami, la vérité humanitaire (Ed. du Jubilé, coll. Documents sans frontières, dicembre 2005, 290 pagine), è tornato a visitare i villaggi ricostruiti con i fondi della cooperazione svizzera nell’ambito del progetto “Riabilitazione di comunità di pescatori in Tailandia” . Nei tre villaggi di questa comunità di pescatori Werly era già stato in marzo, in uno dei numerosi viaggi che quest’anno l’hanno portato a fare la spola tra la Svizzera e i paesi colpiti dal maremoto. La sua impressione è positiva: «Il progetto svizzero è di ottima qualità, superiore alla media. Sono state consegnate una settantina di barche, ne mancano cinque. Un primo villaggio di 16 case – progettate da architetti e ingegneri del luogo – è stato ricostruito. C’è una nuova scuola. Il lavoro avanza, e i beneficiari sono molto contenti dell’aiuto svizzero». I progressi della ricostruzione, qui e altrove, non permettono però di evadere alcune questioni di fondo che ancor oggi – lasciata alle spalle la fase dell’urgenza e mentre la situazione comincia a stabilizzarsi in molte zone – continuano a far sussultare chi osserva con occhio critico quanto avviene nei paesi del sud est asiatico colpiti dallo tsunami. Richard Werly è uno di questi. Nel suo libro parla di «primato delle donazioni rispetto ai bisogni». Cosa intende? Ed è così ancor oggi, passata la confusione della fase d’urgenza? Sì, credo che sia ancora valida. Nel libro ci sono degli esempi che riguardano soprattutto l’Indonesia e lo Sri Lanka. Ma l’affermazione vale anche per la Tailandia. Qui oggi, a un anno dallo tsumani, esistono ancora dei bisogni da soddisfare. Ma in proporzione sono minori rispetto a quelli sorti in Pakistan dopo il terremoto o in altri paesi, come il Sudan ad esempio. Molte organizzazioni restano qui in Tailandia, e anche negli altri paesi in via di ricostruzione, semplicemente perché hanno dei soldi da spendere. È proprio questo che intendo con “primato delle donazioni rispetto ai bisogni”: molte organizzazioni sono presenti sul terreno non tanto per far fronte alle necessità, ma per spendere tutti i soldi, e sono tanti, raccolti fra i donatori. Quali sono i principali effetti perversi degli aiuti d’urgenza e dei progetti di ricostruzione che ha potuto constatare nei suoi viaggi nella regione? Non posso parlare di effetti perversi senza prima fare due premesse. La prima è che l’Indonesia, lo Sri Lanka, la Tailandia, sono stati duramente colpiti dallo tsunami. La mobilitazione internazionale pertanto era necessaria, e fortunatamente la generosità e l’impegno sono stati all’altezza della situazione. Se non ci fosse stata, centinaia di migliaia di persone, forse milioni di persone, sarebbero rimaste a lungo in condizioni molto difficili. La seconda premessa è la seguente. Bisogna essere contenti dell’ammontare delle donazioni, pubbliche e private, che viene stimato tra gli 11 e i 13 miliardi di dollari. Così per una volta i bisogni umanitari hanno potuto essere coperti, e le Ong non hanno dovuto sforzarsi come fanno di solito per trovare i fondi. Detto questo, è innegabile che nella fase di urgenza e in quella della ricostruzione ora in corso si è prodotto un certo numero di effetti perversi. Il primo riguarda proprio la sovrabbondanza di fondi nelle mani delle organizzazioni straniere. Siccome queste avevano un’ampia disponibilità, hanno voluto fare tutto e da sole, anche quando non avevano le competenze né i giusti contatti per farlo. Invece la ricostruzione di una zona devastata da una fenomeno naturale non può che passare da una collaborazione con le organizzazioni e le autorità locali e da un coinvolgimento delle popolazioni locali. Questa è una realtà che avete riscontrato anche nella fase di ricostruzione? Nella fase d’urgenza è quasi inevitabile che vi sia una gran confusione. Nei due, tre mesi che seguono una catastrofe tutti si precipitano sui luoghi colpi, tutti vogliono aiutare. Ed è molto difficile coordinare le varie azioni. È dopo la fase d’urgenza che l’accento va messo sulla collaborazione con le organizzazioni, le autorità e la popolazione locale. Purtroppo questo non è stato fatto. Molte organizzazioni internazionali avevano troppi soldi e hanno preferito andare avanti per conto proprio, ottenendo tutta l’attenzione delle autorità locali e in questo modo marginalizzando le Ong del luogo, le meglio piazzate per sapere chi va aiutato, come lo si deve fare e quali sono le trappole da evitare. Un fenomeno che ho potuto riscontrare in modo chiaro soprattutto nello Sri Lanka. Quali sono gli altri principali effetti perversi di cui parla nel libro? In generale, subito dopo l’urgenza ci si è focalizzati su due cose: gli alloggi e le barche. Ieri su un giornale locale ho letto un articolo nel quale si diceva che oggi ci sono troppe barche, una sovrabbondanza che alimenta il commercio delle barche e che ha fatto aumentare il numero di pescatori: persone che prima dello tsunami vivevano e lavoravano nell’entroterra adesso si spostano sulla costa per andare a pescare. Anche alla ricostruzione delle case è stata accordata la precedenza. Ma ci si è dimenticati che per costruire delle case bisogna avere un terreno, e per avere un terreno bisogna avere dei titoli di proprietà, così come le infrastrutture di base (elettricità, acqua, ecc.). Non è semplice in paesi come questi riscostruire rapidamente delle case. La delimitazione dei terreni e la situazione giuridica in materia di titoli di proprietà, soprattutto lungo le coste, non sono affatto chiare. Ci si è dimenticati del fatto che tra l’urgenza e la ricostruzione delle case c’è una fase nella quale bisogna aiutare la popolazione a tornare a vivere “normalmente”. Si sarebbe dovuto sviluppare di più l’aiuto diretto: piuttosto che costruire subito delle case a ogni costo, si sarebbe dovuto consegnare alle persone colpite una certa somma in denaro contante che permetta loro di riprendere una vita normale. La Divisione dello sviluppo e della cooperazione (Dsc) svizzera l’ha fatto a Aceh, in Indonesia, ma pochi altri hanno seguito questa strada. Cosa l’ha colpita maggiormente nei suoi viaggi attraverso i paesi colpiti dallo tsunami? La prima cosa è la riconoscenza della popolazione locale. In secondo luogo, ancor oggi – soprattutto in Indonesia e nello Sri Lanka – continuano a vivere in alloggi provvisori, in una sorta di campi profughi. A un anno dalla catastrofe una situazione del genere non è accettabile. Qui in Tailandia mi ha anche impressionato l’enorme numero di volontari venuti per dare una mano a ricostruire. Uno slancio lodevole in sé, ma che produce una forma di ingiustizia della generosità che deve far riflettere. Perché esistono dei paesi nei quali le persone hanno più voglia di aiutare che in altri, come il Pakistan o alcuni paesi africani?

Pubblicato il

23.12.2005 04:00
Stefano Guerra
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