Un ambiente di lavoro sicuro non è solo un ambiente senza molestie a sfondo sessuale, ma anche un ambiente in cui, laddove invece si manifestassero, il riconoscimento e la denuncia delle stesse viene facilitato, anche quando la molestia si presenta sottoforma di battuta o di allusione solo apparentemente innocua. Ne parlerà, domani, l’avvocata specializzata in diritto del lavoro Valerie Debernardi, durante la conferenza promossa dal sindacato Unia in occasione della Giornata dello Sciopero delle donne. Il titolo (emblematico) è “Stop alle molestie. Insieme per un ambiente di lavoro sicuro”, e racconta esplicitamente di una realtà che, in Svizzera, è tutt’altro che marginale: quasi una donna su due, nell’arco della propria carriera, subisce una molestia sessuale sul posto di lavoro. Nonostante la diffusione del problema, le molestie continuano a essere sottovalutate e le misure per contrastarle continuano a essere insufficienti, a tutto danno delle vittime che, nella stragrande maggioranza dei casi, intraprendono azioni giuridiche solo una volta cambiato posto di lavoro, spesso dopo essere state licenziate. Il primo passo, per l’avvocata Debernardi, è comunque anzitutto quello di saperle riconoscere: «L’impatto soggettivo – ci spiega – è fondamentale. Il Tribunale federale e il diritto internazionale lo confermano. Certo, c'è un criterio oggettivo che deve essere soddisfatto: la molestia deve avere una connotazione legata alla sfera della sessualità, dell'intimità; ma quello che conta realmente è l'effetto che questo comportamento ha sulla vittima. Se una persona si sente a disagio, se percepisce un commento o un gesto come una violazione della propria sfera intima, allora siamo nell’ambito della molestia. Non conta se altri hanno riso o minimizzato l’accaduto».
L’effetto del comportamento molesto è dunque il nucleo della questione, e non l’intenzione con cui il comportamento è stato adottato. E a dover agire non sono solo le vittime: anche i colleghi, e soprattutto i datori di lavoro, hanno un ruolo fondamentale. «Il datore di lavoro è soggetto a un obbligo di diligenza. Ciò comporta il dovere di prevenzione, informazione e protezione delle vittime. Non può fare finta di nulla, in alcun caso». Tuttavia, spiega Debernardi, non sempre esistono strumenti chiari all’interno delle aziende. «Spesso mancano regolamenti interni o protocolli precisi e, quando ci sono, non è detto che vengano applicati correttamente. In una sentenza del Tribunale federale del 2023, infatti, è stato stabilito che un'indagine interna a un’azienda in cui si erano verificate delle molestie a sfondo sessuale non era stata efficace. I dipendenti, così come anche i superiori, in quel caso ignoravano addirittura l'esistenza del regolamento, senza contare che la vittima era stata costretta ad affrontare chi l’aveva molestata e che, infine, è stata proprio lei a essere stata licenziata. Ciò dimostra che i provvedimenti non solo devono essere presi, ma devono essere presi correttamente ed essere efficaci».
Il primo passo per la vittima, per tutelarsi, è quello di segnalare la molestia e di lasciarne una traccia scritta. «Anche un semplice messaggio è sufficiente. Se c’è un regolamento, questo deve essere seguito (quando esiste, spesso prevede di rivolgersi ai superiori o alle risorse umane). Se l’azienda non ha previsto un protocollo, è comunque fondamentale segnalare per iscritto ai superiori e cercare il sostegno di un sindacato o di un legale». La cosa più importante – e di cui, spesso, le vittime non sono a conoscenza – è che la Legge sulla parità offre una protezione contro il licenziamento per le vittime che denunciano una molestia. «In caso di licenziamento a seguito di una denuncia si può richiedere l'annullamento del licenziamento. Nella realtà dei fatti, tuttavia, molte persone danno comunque le dimissioni perché l’ambiente di lavoro è diventato talmente ostile da essere insostenibile. E questo, naturalmente, è ingiusto».
A rendere più difficile la denuncia, spesso, è anche l’accessibilità alla giustizia: andare in tribunale è difficile per chiunque, senza contare l’onere economico che comporta. «Qui è fondamentale, secondo me, il ruolo dei sindacati – prosegue Debernardi. Questi possono rappresentare in giustizia i loro assistiti o aiutare dal punto di vista delle spese legali. Poi, se oltre a questo si insistesse nel formare adeguatamente magistrati e tribunali specifici sul tema, ci sarebbe anche maggior propensione a denunciare, perché si riporrebbe più fiducia in un ascolto e in un esito adeguato». Oltre alla disponibilità economica, poi, sono anche altri i cosiddetti fattori di vulnerabilità per chi subisce una molestia. «Chi ha un contratto precario, da ausiliario o a tempo determinato, chi ha un permesso di soggiorno temporaneo, chi ha un permesso per frontalieri o chi lavora in nero, ha ancora meno strumenti. Più il rapporto di potere è sbilanciato, più si riduce la possibilità di difendersi». C’è chi, in Svizzera, sta facendo passi avanti, come il tribunale del lavoro di Ginevra, ma per Debernardi, in conclusione, serve uno sforzo collettivo: «Non possiamo aspettarci che ogni cittadino conosca la legge da solo. Servono campagne, formazione e soprattutto la volontà politica di rendere chiaro che le molestie non sono tollerabili, in nessuna forma». |