Salute

«Mio padre in questa casa anziani non lo terrei»

La drammatica testimonianza di un'assistente sanitaria per la giornata internazione delle cure

Domani sarà il 12 maggio, la giornata internazionale delle cure: quale miglior occasione, a un mese dallo sciopero femminista, perché la ricorrenza si trasformi in un momento di denuncia per le pessime condizioni di lavoro nel settore sanitario? E così, proprio oggi, il personale delle cure con varie azioni sparse per la Svizzera torna a lanciare l’allarme, chiedendo l’attuazione immediata delle cinque misure d’urgenza.

Noi proponiamo la drammatica e cruda testimonianza di un'assistente di cura: «Ho visto lasciare persone morire come cani, mi sono rifiutata di prendere parte alla violenza di lavare i pazienti in piena notte per guadagnare tempo».

 

La notizia, se così la vogliamo chiamare, non riguarda “solo” il personale sanitario sotto pressione in Svizzera, ma che la qualità delle cure non è più garantita. «Ho visto persone lasciate morire come cani sole in una stanza; pazienti svegliati in piena notte per essere lavati, perché al mattino non ci sarebbero stati abbastanza dipendenti per farlo».

Evitate pure di consolarvi, pensando che almeno voi di notte non siete obbligati a lavorare. Non allontanate l’immagine disturbante di un estraneo nell’atto tanto intimo di occuparsi dell’igiene personale di chi non è più autonomo.


No, non gettate lo sguardo altrove, per rianimarvi in maniera semplicistica, ma restate pure qui incollati a leggere sino in fondo, perché l’affanno del personale sanitario, potenzialmente, diventa vostro nel momento in cui dovreste aver bisogno delle loro prestazioni. E così gli ospedali, le case anziani, i servizi spitex vi riguardano più di quanto crediate.


E la notizia è che oggi appare poco possibile garantire con assoluta certezza la qualità delle cure in Svizzera. Per carità, qualche eccezione, che resta tale, c’è, ma il grido d’allarme lanciato dalla categoria è inequivocabile. Le segnalazioni che giungono a Unia descrivono situazioni gravi con gestioni quasi dilettantesche del personale.

Una cattiva organizzazione che si riflette in chi si ammala, chi cade in burnout o chi getta la spugna, abbandonando la professione.

 

«Lei, lascerebbe qui suo padre?». Luisa è un’assistente di cura, che un giorno con coraggio solleva la questione al direttore della casa per anziani, dove all’epoca lavorava. La risposta è un secco, poco interpretabile e perentorio «no».


Luisa ha 41 anni, due figli adolescenti, ed è una lavoratrice frontaliera: «Non voleva essere una domanda provocatrice, ma in coscienza volevo sapere se chi dirigeva questa struttura la ritenesse adeguata per un proprio congiunto. Ecco, perlomeno, non ha avuto la faccia tosta di mentire, perché in quel posto le condizioni di benessere non erano date al personale, ma neppure ai residenti. Dico la verità, l’esperienza è stata un trauma: ho visto un trattamento nei confronti di persone anziane che mi ha scossa, segnata, tanto da farmi cambiare posizione professionale».


La donna inizia giovanissima a interessarsi al mondo della terza età: «Studiavo all’università scienze infermieristiche, avevo 19 anni, avevo voglia di confrontarmi con il mondo del lavoro e trovavo che la pratica fosse il miglior maestro. Ho mollato gli studi e ho subito trovato un impiego in Ticino in una casa per anziani, perché era questa l’utenza di cui volevo occuparmi».


Luisa è una donna empatica, determinata, che ha scelto il suo mestiere con convinzione, pur consapevole dei sacrifici. Luisa è amareggiata mentre parla, e quando ricorda certe scene si rabbuia: «Non lavoro più in casa anziani, perché l’ultima esperienza mi ha lasciato il segno: sì, sono stata segnata, rimasta traumatizzata e devo ancora elaborare alcuni choc, perché tali sono stati. Ho visto pazienti trattati in maniera non umana, mentre la relazione dovrebbe essere il principio che in questo lavoro non viene mai meno. Io stessa, per il poco tempo che mi veniva concesso per eseguire ogni prestazione, ero messa nella condizione di non poter instaurare una relazione con le persone che mi venivano assegnate. Tornavo a casa con il magone, insoddisfatta e molto provata: avevo solo voglia di piangere, di sfogarmi».


Che cosa non funzionava, Luisa? Perché questa sofferenza?
Dove manca la base non si può costruire. La direzione della casa per anziani, una struttura del Locarnese, che all’esterno ha saputo veicolare l’immagine di posto idilliaco, non ha mai dimostrato la volontà di migliorare le condizioni di lavoro e, per riflesso, di qualità di vita per i residenti. Numeri i dipendenti, numeri gli ospiti, perché l’obiettivo era ridotto a una questione di business. Le racconto una situazione che ho vissuto. Provo la temperatura a un signore e il termometro mi indica 38 e mezzo di febbre. Nonostante le indicazioni del medico cantonale fossero chiare, mi viene negata la facoltà di fargli il tampone “per non creare allarmismi”. Ciò che temevano era la chiusura del bistrot che, aperto anche a un’utenza esterna, era una fonte di introiti. Una mancanza di scrupolo cui non si sono aggiunte neppure le minime misure di protezione come l’isolamento dell’uomo, ad esempio.


Lei entra in questa casa anziani a inizio 2020, quando si è ancora in pieno Covid: non è che le condizioni fossero aggravate dalla pandemia?
Non c’entra il Covid: i problemi per il personale sanitario, trasversali agli ospedali e alle case medicalizzate, sono cronicizzati da anni. La pandemia può averli amplificati, ma di certo la situazione è stata strumentalizzata per giustificarsi, perché le carenze e i problemi erano noti da tempo.


Luisa, lei ha passato più della metà della sua vita professionale a contatto con gli anziani, soddisfacendo i loro bisogni, offrendo una parola di conforto: che cosa la sconvolgeva tanto del nuovo contesto lavorativo?
Eravamo in una situazione di pandemia, quindi particolare, e all’inizio mi sono limitata a osservare in silenzio quello che accadeva attorno a me. Più passavano i mesi e più sentivo un disagio, che si manifestava fisicamente e psicologicamente: mi rendevo conto di essere finita negli ingranaggi di una macchina organizzativa ben oliata al fine di trarre il massimo profitto economico a discapito del personale, cui si toglievano sistematicamente le risorse.


È un brutto periodo per la lavoratrice che si tormenta (tormentarsi è il verbo giusto), pensando continuamente a come «trovare una soluzione»; «dovevo fare ballare quelli sulla sedia per scuoterli, per mettere fine a questo sistema».

Luisa, forte, determinata, con caratteristiche di leadership, coinvolge colleghe e colleghi, trovando solidarietà e disponibilità a battersi per i propri diritti.

Luisa contatta Unia e il sindacato li affianca nella lotta, chiedendo un incontro con la direzione: «La questione del contratto viene risolta, permettendo di raggiungere un buon risultato. Ma, al di là dell’aspetto economico, sono convinta sia giunto il momento per la società e la politica di rivedere le basi fondative e normative delle case per anziani: occorre investire di più e porre le persone al centro».


Si riferisce a qualcosa di particolare? Quale “rivoluzione” andrebbe fatta?
Dalla mia esperienza professionale, e dal racconto di colleghi, ho dedotto che lo zelo è rivolto più che altro al rispetto di aspetti molto formali e tecnici, ma poca, se non nessuna, attenzione alla qualità di vita dell’ospite in casa per anziani e nessun accompagnamento alla morte in strutture dove i decessi non sono eccezioni, ma la normalità. Aspetti che il personale di cura dovrebbe potersi assumere, ma, invece, ho visto con i miei occhi, e mi scuso per l’espressione forte, lasciare morire alcuni pazienti come cani. Non fraintendetemi, non gli sono state negate le cure infermieristiche di base, ma sono stati abbandonati da soli in camera ad aspettare il loro destino senza qualcuno che gli tenesse la mano o li confortasse con una parola. Ho assistito al tentativo prevaricatore, da parte di personale poco formato, di imboccare una persona nelle sue ultime ore di vita: è una scena che ancora mi fa male, perché chiunque ha diritto a morire con dignità. Ci vorrebbe una maggior accortezza nella scelta del personale e invece viene assunto chiunque senza tante formalità.


La carenza di risorse finanziarie quali altri problemi crea?
La mancanza di personale è un aspetto problematico, che presenta gravi ripercussioni su più livelli. Racconto un episodio che, turbandomi ancora, può dare la gravità della situazione. Per guadagnare, e arrivare alle 7 del mattino con meno carico di lavoro, si pretendeva di lavare i pazienti in piena notte. E così chi copriva il terzo turno, si vedeva costretto a svegliare persone molto anziane, che stavano profondamente dormendo, alle 3 e mezza del mattino per lavarle direttamente a letto. Mi sono rifiutata di eseguire gli ordini: “Mi fermo, non pagatemi in questo lasso di tempo, ma io non sveglio nessuno in piena notte per passargli il pettine fra i capelli. Non voglio essere complice di questa violenza”. Non hanno risolto il problema, hanno continuato con la prassi, semplicemente mi hanno esonerata dal turno di notte in modo che non protestassi, condizionando o influenzando i colleghi.


Una fatica e una frustrazione che si manifestavano in che modo fra i dipendenti?
In un continuo ricambio di personale, perché in tanti non resistevano. Non si presentavano più al lavoro e chi era lì doveva coprire i loro turni e fa niente se non aveva potuto avere neppure un weekend libero in un mese. Significava anche investire il proprio tempo per portare a termine le mansioni. Ricordo quando un’animatrice è entrata in malattia per un burnout: io e altri colleghi, per dare continuità alla sua programmazione, finiti i nostri turni, proponevamo le sue attività nelle nostre ore non pagate.

 

Per Luisa è troppo, oltremisura dal punto di vista umano, non riesce più a sopportare di essere testimone di trascuratezze, mentre attorno vede colleghi in affanno. Lei stessa, del resto, lo è: «Prendevo 4.800 franchi e lavoravo 4 giorni alla settimana: la paga per me era buona, ma c’era quella angoscia che ti portavi sempre appresso. Era, oltretutto, un periodo familiare delicato con mia sorella malata e l’accudimento di due figli piccoli. Ho resistito per due anni: con quei ritmi, quella pressione l’alternativa sarebbe stata non vedere più la mia famiglia o cadere in depressione».


Luisa ama troppo il contatto con gli anziani: l’assistente di cura dal settembre 2022 è attiva nelle cure domiciliari in una ditta del Locarnese. «Un altro modo di lavorare, sono rinata. È una questione di organizzazione: c’è un piano di lavoro e delle tempistiche che sono rispettate e permettono di non avere mai sovraccarichi di ore e soprattutto di potersi occupare del paziente nel migliore dei modi. Quando ho potuto fare la doccia a una signora, come le direttive indicano, mi sono commossa».


Il 12 maggio diventa il giorno per tornare a chiedere l’attuazione immediata delle BIG 5, le misure presentate alla fine dello scorso anno dall’insieme del movimento sindacale, ovvero: importanti aumenti salariali, riduzione del carico orario, aumento considerevole delle indennità in presenza di cambio repentino dei turni di lavoro, aumento delle vacanze, registrazione completa di tutto l’orario di lavoro e importi significativi per la custodia dei figli. Misure certamente parziali che permetterebbero però di mettere un cerotto su una situazione sempre più drammatica. Intanto, prosegue il lavoro d’inchiesta che Unia sta svolgendo in collaborazione con la Scuola professionale della Svizzera italiana e che sfocerà in un manifesto sulla qualità delle cure. I primi risultati del progetto verranno discussi in occasione del convegno sulle cure in programma sabato 2 settembre a Berna.


Pubblicato il

11.05.2023 16:49
Raffaella Brignoni e Federica Bassi
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