Gli scontri e atti vandalici succedutisi nei tre giorni di vertice non possono cancellare un corteo colorato, vivace, allegro, pacifico e numeroso (più di 100 mila persone) che ha caratterizzato la grande manifestazione anti-G8 transfrontaliera di Ginevra dello scorso primo giugno.
Loro, i sette capi di Stato e di governo dei paesi più industrializzati e il presidente russo Vladimir Putin, erano lì a pochi chilometri dall’altra parte del lago Lemano: abbarbicati come moderni signorotti medievali fra le montagne di Evian, nella loro ipotetica fortezza. Lì a Evian, ridente cittadina francese tra le Alpi dell’Alta Savoia, nota fino a qualche settimana fa solo per l’acqua minerale di una nota multinazionale, per tre giorni Bush jr. e compagni – denominati affettuosamente «gli 8 casseurs di Evian» – hanno dato la loro bella prova di forza e ostentazione. Il popolo è giù in basso, non solo metaforicamente, a Ginevra, Losanna, Annemasse per urlare al mondo forte e chiaro «noi non ci stiamo. Vogliamo un altro mondo, non vi legittimiamo e non siete legittimati a governare il pianeta».
Fino a pochi anni fa, prima di Seattle per intenderci, questi cosiddetti incontri al vertice tra capi di Stato e di governo erano normale routine: l’occasione per mettere in mostra sorrisi, strette di mano, enunciazioni di grandi principi e ribadire ancora una volta la loro leadership mondiale. Nessuno si chiedeva cosa veramente decidessero i sette “grandi” e di cosa discutessero. L’opinione pubblica mondiale si era come arresa al pensiero unico dominate. Poi ad un tratto, nel 1999, arrivò Seattle. In quell’occasione, migliaia di persone si erano date appuntamento, in silenzio e con grande organizzazione, nella città statunitense per opporsi al famoso Millennium round dei paesi aderenti all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). Improvvisamente decine di migliaia di studenti, operai, impiegati – in una parola cittadini – chiedevano a gran voce maggiore trasparenza e democrazia. Si opponevano al modo di operare dell’Omc e chiedevano il cambiamento delle regole del commercio internazionale: non più imposizioni del libero mercato a tutti i costi – parafrasando un motto del movimento pacifista «senza se e senza ma» – ma condivisione e comprensione per i paesi, chiamati fino a pochi anni fa, “in via di sviluppo”. Nasce così il movimento meglio noto come il “Popolo di Seattle”. Questo movimento, embrione di quello che diventerà il movimento “no global”, è figlio dei nostri tempi: è attivo ovunque e in nessun luogo crescendo e organizzandosi via Internet; commentare la legittimità dei suoi blitz, manifestazioni, proteste implica la presa di coscienza su temi scottanti come gli effetti della globalizzazione economica e della disparità tra paesi ricchi (che decidono le regole del gioco) e quelli poveri (che subiscono le decisioni).
Ma chi sono esattamente quelli del “Popolo di Seattle” e cosa sono diventati? Il movimento prende il nome dalla città in cui venne alla ribalta quando, nel novembre del 1999, ebbe luogo la sua prima, grande uscita pubblica per dire no ai cibi transgenici e sì alla remissione del debito dei paesi del Terzo Mondo. Allora i manifestanti diedero prova della forza delle loro idee tra lacrimogeni e sassaiole. Inizialmente non era facile dare loro un’etichetta: ecologisti, animalisti, sovversivi? Comunque fosse, per una volta quasi tutti i gruppi “contro” di varie culture politiche si trovavano schierati assieme. Dopo Seattle tutto fu più chiaro: nemico unico di tutti questi micro-movimenti era (ed è) la globalizzazione e i suoi effetti devastanti per la popolazione mondiale. Tra le conseguenze di questo nuovo sistema economico è possibile riconoscere il grande divario (culturale ed economico) tra Nord e Sud del Mondo: la mancanza di rispetto e l’abuso delle risorse naturali (acqua cielo o terra non importa: tutto viene ugualmente depredato, inquinato, rovinato), il raggiro dei consumatori, ripetutamente ingannati sui prodotti alimentari e farmaceutici, diventano temi che per la loro delicatezza obbligano ciascuno a riflettere. Da allora un movimento crescente e mondiale di contrari alle politiche neo-liberiste e della globalizzazione economica si è rafforzato, è cresciuto, è diventato altro. Dopo di allora numerose furono le occasioni di manifestazioni di questo nuovo modo di intendere la politica e il dissenso a determinate politiche, non solo economiche.
Davos, Helsinki, Napoli Genova, diventano le città simbolo della contestazione no-global, e della sua violenta repressione, costringendo i potenti del mondo a rivedere le loro agende. Da allora non si organizzano più summit in città facilmente raggiungibili: Doha nel Qatar, Kananaskis nelle montagne canadesi ed Evian diventano le sedi ideali per non essere disturbati “troppo” da contestatori di ogni genere.
Un capitolo a parte lo merita Genova. In quell’occasione – luglio 2001 – la repressione poliziesca contro i manifestanti fu di una violenza inaudita. Scontri e rappresaglie furono all’ordine del giorno fino a culminare nell’irruzione “cilena” alla ormai famosa scuola Diaz, preceduta, il giorno prima, dall’uccisione da parte di un carabiniere ventenne di Carlo Giuliani, un altro ragazzo ventenne colpevole solo di essere tra i manifestanti no global.
Da Genova 2001 a Ginevra 2003 il passo è breve. La città di Calvino era stata scelta dal variegato movimento “altromondista” per organizzare la grande manifestazione, pacifica e colorata, anti-G8 svolta all’apertura del vertice.
I giorni precedenti erano stati caratterizzati da dibattiti, seminari organizzati da una parte e dell’altra della frontiera. La Maison des associations (luogo simbolo delle comunità straniere presenti a Ginevra e dei movimenti sociali, una sorta di piccola Onu, per intenderci) e l’Università, erano il quartier generale del Forum sociale del Lemano e sede di dibattiti animati da tutte le componenti del “movimento”. Interessante il dibattito tenuto all’Università di Ginevra sull’abbattimento del debito dei paesi del Terzo Mondo (vedere articolo sotto). Ad Annemasse, grazie ad Attac-Francia, si è dibattuto sul futuro del movimento no-global e sul Forum sociale europeo (il secondo dopo quello di Firenze dello scorso anno) che si terrà il prossimo novembre. La volontà e le premesse per svolgere un buon lavoro c’erano tutte: far circolare idee, creare dibattito e perché no, fare anche festa. Ma con loro, a Ginevra e Losanna, c’erano anche poche decine di casseur o black bloc, comunque li si voglia definire, che hanno colto l’occasione per guastare la festa catalizzando l’attenzione mediatica.
A questo bisogna aggiungere il clima di tensione creato ad arte dalla consigliera di Stato ginevrina, Micheline Spoerri, responsabile del Dipartimento giustizia e polizia e da chi fa dei manifestanti “ogni erba un fascio” accomunandoli ai teppisti. Da lei provenivano le richieste al Consiglio federale di impiegare, oltre alla polizia ginevrina e di alti cantoni, anche poliziotti tedeschi per garantire l’ordine pubblico.
La notte precedente il corteo – ripetiamo – pacifico, alcuni facinorosi venuti apposta dal resto della Svizzera e dall’estero si erano divertiti a fracassare le poche vetrine non protette da pannelli di legno del centro città, gettando molotov contro il palazzo del Municipio e distruggendo automobili. In quell’occasione l’operato della polizia era stato giudicato equilibrato. Si era preferito non intervenire massicciamente e in forze per evitare di rovinare il clima della manifestazione del giorno dopo. Patrice Mugny, municipale ginevrino appena eletto, aveva commentatao esterrefatto gli atti vandalici «È incomprensibile che ciò sia successo a Ginevra, città che si è prodigata per accogliere al meglio i manifestanti provenienti da tutta Europa».
Ma nonostante questo spiacevole episodio la festa del giorno dopo non era ancora rovinata del tutto. Si inizia al mattino di buonora (5.30) con il blocco dei ponti sul Rodano che precede e dà idealmente il via al corteo. Si preparano i cartelli e gli striscioni colorati. Una babele di lingue, colori e suoni popolano il Jardin anglais finché non ci si mette in marcia verso il posto di frontiera con la Francia. Durante il percorso s’incontrano anche parecchie facce note. Tra tutti l’ex consigliere nazionale ginevrino Jean Ziegler, il prete no global irpino don Vitaliano della Sala e Francesco Caruso, noto alle cronache per il suo assurdo arresto nell’ambito di un’inchiesta della procura di Cosenza. Tutto fila liscio o quasi fino alla frontiera quando lo spezzone ginevrino si incontra con l’altro imponente corteo proveniente da Annemasse, mescolandosi idealmente in un tripudio di bandiere, slogan, facce e colori. Qui giungono le notizie sull’incidente accaduto all’attivista inglese precipitato da un ponte autostradale a seguito dell’intervento sconsiderato di un poliziotto. Serpeggia la tensione e sulla strada del ritorno verso Ginevra si vedono i danni provocati da uno sparuto numero di casseur. E soprattutto si incontra la polizia in assetto anti-sommossa. Da quel momento in avanti gli animi si scaldano e i black bloc la faranno da padroni sia in città che sui media gettando un’ombra sul “movimento” tutto. Anzi, nascondendolo completamente e offuscando le menti di molti. Perchè solo così si può spiegare, con lo spegnimento del cervello, la domanda che il conduttore del telegiornale della Tsr ha posto alla contestata Micheline Spoerri: «Non crede che in situazioni del genere bisogna prendere in considerazione il fatto di poter sparare alle gambe dei “casseurs”, visto che sono venuti qui per distruggere, ferire e uccidere?». «Rientra nelle norme di condotta», ha risposto l’attuale consigliera di Stato, forse ancora per poco. |