I paradossi delle migrazioni li conoscono bene i lavoratori italiani in Svizzera e le loro famiglie. Ma questi paradossi si ripresentano ovunque, in qualsiasi paese oggetto di un importante arrivo di popolazioni straniere. Se ne è discusso sabato scorso a treviso al convegno “Migrazioni, tra spinte xenofobe e politiche d’integrazione” organizzato dalla Federazione delle Colonie libere italiane in Svizzera (Fclis). La Conferenza straordinaria dei Presidenti delle 70 Colonie, ha scelto Treviso per celebrare i 60 anni di storia della Fclis. Al convegno hanno partecipato, oltre ai presidenti e delegati delle Colonie, rappresentanti degli immigrati in Italia ed esponenti del mondo politico e sindacale dei due paesi. Quella delle Colonie è una storia importante, una storia di lotte sul piano sociale, politico e culturale, per l’integrazione della più grande ed antica comunità straniera in Svizzera. Se – come ha ricordato il presidente Claudio Micheloni, – ci sono voluti 50 anni prima che le autorità federali cominciassero a valutare l’esistenza di politiche d’integrazione, l’associazionismo ha svolto da subito un importante ruolo di ammortizzatore sociale. Da oggetti di campagne elettorali xenofobe, gli italiani in Svizzera sono diventati soggetti politici. Se i fenomeni migratori ed i relativi processi d’integrazione rappresentano la più grande rimozione delle storiografie nazionali, la memoria dei lavoratori italiani in Svizzera ha tentato di sollevare il velo su questo importante fenomeno e gettare un ponte verso i nuovi migranti. Così pure il libro “L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi” del giornalista Gian Antonio Stella, che ha coordinato la tavola rotonda. Il rischio di coniugare migrazione e criminalità è sempre in agguato, ha ricordato il rappresentante degli immigrati in Italia Aly Baba Faye, soprattutto dopo l’11 settembre. Ma la criminalità è un problema sociale, non individuale ha ribadito Micheloni. Secondo Faye, si sta creando in Italia, lo spettro di una nuova schiavitù: ai lavoratori immigrati la legge Bossi-Fini non riconosce il diritto alla disoccupazione, inoltre i Centri di prima accoglienza stanno diventando dei luoghi di detenzione. Il richiamo ai principi repubblicani di Faye, fa emergere l’esigenza di un quadro normativo che garantisca una certezza di diritti e doveri per tutti. Ma oltre alla riflessione sui limiti delle attuali politiche migratorie, il convegno ha rappresentato anche un momento di autocoscienza per la sinistra. L’ex ministro Livia Turco ha sottolineato il mancato rigore nell’applicazione della precedente legge sull’immigrazione, la Turco-Napolitano. Il convegno ha dato rilievo alla strutturalità del fenomeno migratorio e all’urgenza di stabilire delle politiche d’integrazione chiare ed efficaci per una popolazione che a livello europeo ammonta a circa 20 milioni di migranti. Non sarebbe da escludere l’ipotesi di una cittadinanza europea, ha ricordato Gianni Pittella. Altri dati emersi dal convegno confermano l’impianto strutturale del fenomeno migratorio. Ai 700 mila regolarizzati della Bossi-Fini corrispondono altrettanti italiani che, secondo i dati dell’Istituto di ricerche sulla popolazione, nell’ultimo decennio sono emigrati per motivi di lavoro. Un fenomeno che ha ripreso vigore negli ultimi 3-4 anni, secondo una ricerca del Cnr. La presenza di immigrati in Italia è del 3 per cento, ben al di sotto della media europea del 7 per cento. Inoltre, i 4 milioni di italiani all’estero superano di quasi tre volte il numero dei cittadini stranieri residenti in Italia. Panchine divelte dall’amministrazione, lavoratori che dormono sotto i ponti o nelle chiese, spazi pubblici vietati ai cittadini per la celebrazione di feste o riti religiosi non cattolici, pestaggi in diretta di ospiti televisivi, agognati vagoni speciali per immigrati: la cronaca recente di Treviso sfida le norme del buon senso e il modo di pensare comune. Letteralmente, un paradosso. Il regista Davide Ferrario in un suo documentario del 1991 sulla Lega Nord, “Lontano da Roma”, faceva emergere un dato sconcertante: una grossa fetta del “popolo leghista” aveva origini meridionali, era il frutto delle ondate migratorie del dopoguerra. Treviso è anche la provincia di una delle regioni italiane che ha maggiormente esportato manodopera in tutto il mondo. Si contano quattro milioni e mezzo di veneti nel mondo, tanti quanti ne conta la regione attualmente. “Paradosso” è anche il soprannome di Jave Sossah, cittadino del Togo, operaio in una fabbrica del trevigiano, residente a Treviso da sette anni, iscritto alla Lega Nord dal 1995. C’era anche lui al Convegno di Treviso. È l’unico della famiglia a vivere in Europa, i suoi sette fratelli, di cui due laureati, vivono in Togo, come sua figlia che non può avere il visto per l’Italia. Segue un corso di mediatore culturale ed è molto impegnato nel volontariato. Cosa l’ha condotto a condividere la politica migratoria della Lega? Io nel ‘95 ho aderito alla Lega perché all’epoca aveva una strategia di trasparenza. Il discorso dell’immigrazione posto dalla Lega è cambiato nel corso degli anni, oggi si è arrivati ad una chiusura totale. I governi della sinistra all’epoca hanno fatto anche peggio di quello che si sta facendo adesso, ad esempio con i visti. Io mi sono detto: perché devo sostenere qualcuno che mi sta prendendo in giro? Preferisco uno che mi dà delle regole certe, che mi dice “guarda, questo funziona così”, se mi va bene rispetto le regole ed entro in sinergia con lui altrimenti ciao e buonanotte. E la legge Bossi-Fini? La nuova legge sull’immigrazione ha dei punti che sono veramente disumani però ha anche dei punti dove per lo meno stabilisce delle procedure certe. Una volta per fare il rinnovo del permesso di soggiorno ci si metteva una vita, ora anche il ricongiungimento familiare è più facile. La confusione danneggia soprattutto gli immigrati perché non hanno leggi sicure, giuste. Adesso comunque la legge va migliorata in alcuni punti, va perfezionata secondo le esigenze del mercato. Perché bisogna far entrare le persone? Per lasciarle sotto i ponti d’inverno? Oppure per creare il disagio sociale? Tornando alla Lega, un partito che non è portatore di una cultura politica fondata sulla solidarietà, come può rappresentare le istanze degli immigrati? Perché non si è pensato prima a regolarizzare i 700 mila immigrati della Bossi-Fini? Chi ha sostenuto l’immigrazione lo ha fatto per mantenere il consenso politico. Non sopporto il doppio gioco, preferisco chi è trasparente. Se un partito sostiene la solidarietà come valore universale, questo non deve essere solidale con chi non rispetta nessuna regola. Qui non siamo a casa nostra, siamo ospiti e dobbiamo rispettare le regole. La criminalità degli immigrati irrigidisce la sensibilità delle persone. Qual è stato il percorso individuale che l’ha condotto a sostenere la Lega? Ad un certo punto mi sono trovato davanti ad un bivio e ho scelto una serie di valori che mi rappresentavano, puntando sul lavoro politico, non sul partito. Volevo portare un esempio, rappresentare un interlocutore per i leghisti. Se diciamo che sono tutti razzisti e li lasciamo senza contatto con gli immigrati, vanno avanti come dei ciechi per tutta la vita. Interagendo con loro si riesce a costruire qualcosa di diverso, io sto seguendo delle iniziative che sono appoggiate da leghisti a favore degli immigrati. Il mio contributo non è ideologico-politico, ma sociale. Il mio raggio d’azione è nella sinistra, le associazioni di cui faccio parte hanno una valenza di sinistra. Perché è qua con gli emigrati italiani in Svizzera? Io voglio avvicinarmi alla realtà di queste persone, sfruttare l’esperienza che hanno avuto, conoscere il tragitto che hanno seguito. Queste sono esperienze positive da cui tutta la società deve prendere spunto per migliorare quello che sta succedendo in Italia, dove l’emigrazione è recente. Gli immigrati oggi non devono rivivere i problemi che hanno vissuto gli emigrati italiani. Quale strada bisogna percorrere allora? Bisogna mobilitare le coscienze. L’integrazione è bilaterale. Anche gli immigrati devono essere sensibilizzati a comportarsi in modo da favorire l’integrazione. Attenzione, se dici sempre all’immigrato che ha ragione, non gli insegni a lottare, per i suoi diritti, per la sua cultura. Non vogliamo l’assimilazione. Integrazione significa che c’è una cosa che si integra con la parte mancante: questo è un lavoro che va fatto da tutti. Molti immigrati non si interessano alla lingua, alle leggi, alla condizione delle donne. Le donne degli immigrati non si vedono, non sono valorizzate se non come casalinghe, sono in maggioranza escluse. L’integrazione allora è un problema culturale o politico? È un problema politico. Bisogna ricordare che il trevigiano è quello che ti dà la casa, a volte anche gratis, ti dà la bicicletta anche se è vecchia, ti porta le zucchine dall’orto perché pensa che questa è povera gente, che ha fame, perché i media hanno inculcato nella loro mente che questa è gente che muore di fame. E poi quando lavori il trevigiano ti apre le porte, non bisogna negarlo. Se oggi c’è questo aumento dell’intolleranza, bisogna andare alla radice del problema. Gli immigrati bisogna responsabilizzarli. L’integrazione è un contenitore dove mescoliamo tutte le nostre conoscenze, tutta la cultura delle persone, per tirarne fuori il meglio. Però abbiamo bisogno di strumenti, di definire i diritti e i doveri. Una volta assolto il dovere, non devo contrattare i diritti. Alla fine del convegno Jave ha confessato di essere comunque stato meglio che alle riunioni della Lega.

Pubblicato il 

24.01.03

Edizione cartacea

Nessun articolo correlato