Migranti, da una lingua all’altra

Spesso, non sempre, la lingua del paese d'immigrazione (quindi nelle biografie dei migranti, per qualunque causa o concausa si siano spostati) diventa la lingua d'uso, anche per la scrittura; le tipologie, le modalità possibili non sono tantissime, limitandoci all'italiano:
A) C'è ovunque nel mondo chi (un numero rilevante di emigrati) continua a scrivere solo / prevalentemente / spesso, nella sua lingua d'origine (1);
B) Assumere la "nuova" lingua per la seconda generazione (spesso), e ancor più per le successive (sempre), è una necessità – scelta che avviene normalmente; per la prima, se è meno frequente, succede ogni qualvolta il "progetto" migratorio non è più vissuto come provvisorietà (2);
C) Ma c'è anche chi, è stato il mio caso e di chissà quanti/e altri, rischia di venire scavezzato, giudicato analfabeta e condannato a rimanerlo, muovendosi dentro la stessa area linguistica (3).

Dove, come collocare Agota Kristof?
Certamente sotto la lettera B, ma prima:

Alcune notizie biografiche

Agota Kristof nasce nel piccolo villaggio ungherese di Csikvand nel 1935 ("villaggio che non ha la stazione ferroviaria, né l'elettricità, né l'acqua corrente, né il telefono"), allora; neppure Maranzanis.

A quattro anni sa già leggere, correntemente, velocemente, compulsivamente, legge tutto quello che le capita tra le mani o sotto gli occhi, quasi una malattia: giornali, libri scolastici e di favole, manifesti, fogli sparsi trovati per caso, segnali stradali, ricette di cucina.
Il padre è insegnante elementare, l'unico del villaggio, insegna a tutti i bambini in una pluriclasse che comprende i sei anni della scuola primaria.
Della madre ricorda la cucina piena di profumi e di odori e il grande orto-frutteto, l'aula del padre: «sa di gesso, inchiostro, carta, calma, silenzio…».
Si rifugia lì quando la madre punisce lei e suo fratello più grande per i loro "misfatti" (spesso?), un altro fratello è ancora "in fasce".
La sua abilità nel leggere suscita sentimenti di fierezza nel padre che non esita a chiederle di esibirsi davanti a parenti e vicini, ma anche i rimproveri della madre e di altri: «Non fa nient'altro. Passa tutto il tempo a leggere».

Ha passato i quattro anni quando scoppia la guerra.

Ne ha nove quando la famiglia "sfolla" in una piccola città di frontiera, Koszeg: «dove almeno un quarto della popolazione parla il tedesco». A questi vanno aggiunti agli occupanti ("gli alleati"). Decide che per lei il tedesco è una «lingua nemica».

Ma Kozberg è comunque una rivelazione! Il plurilinguismo. Fin lì ha creduto che, nel mondo, per tutti, esista una sola lingua: gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, i libri, i giornali, tutto è in quella lingua. Neppure riesce ad immaginare che lo stesso oggetto si possa chiamare in altro modo, che ci si possa non capire. E gli zingari? Non sono pochi quelli che vivono, trafficano, rubano lì attorno a Csikvand. Certo tra di loro parlano in un modo diverso, ma solo tra di loro, l'ungherese lo sanno; allora pensa che sia un'invenzione, come i linguaggi segreti dei bambini. Ed è in un linguaggio segreto che scrive il suo diario. Ma, grazie agli zingari, strologa che ti strologa, qualcosa intuisce: «nell'osteria del paese gli zingari avevano dei bicchieri segnati, speciali, solo per loro, perché nessuno voleva bere in un bicchiere dal quale gli zingari avevano bevuto». L'esistenza del diverso. Il rifiuto del diverso.

Ha dieci anni quando arriva l'armata rossa ("i liberatori"); il russo nelle scuole diventa lingua obbligatoria; ma quasi nessuno la possiede, quasi nessuno la sa insegnare, nessuno la vuole imparare. Forse i russi fanno finta di non accorgersi… Anche il russo diventa una «lingua nemica».

E ne ha ventuno quando, sposata da due, nel 1956, in seguito alla repressione sovietica del sollevamento popolare ("la rivolta", "la rivoluzione") si rifugia, con il marito ungherese e la loro bambina di quattro mesi, prima in Austria e da lì in Svizzera. Li precedono e li seguono decine di migliaia di altri/e ungheresi.

Passano da un centro per rifugiati all'altro: «La domenica dopo la partita di pallone i tifosi vengono a vederci dietro la rete della caserma. Ci offrono cioccolata e aranci, naturalmente, ma anche delle sigarette e dei soldi. Questo non ci rievoca i campi di concentramento, ma piuttosto i giardini zoologici». Dai centri, senza fretta, vengono "smistati", a piccoli scaglioni, nelle varie località della Svizzera. Così, molto per caso, si ritrova, con figlia e marito, a Valangin, dove han loro preparato un piccolo appartamento. Cantone di Neuchâtel, area linguisticamente francofona.

Poche settimane dopo inizia a lavorare, in una fabbrica di orologi, a Fontainemelon, una cittadina abbastanza vicina. Il lavoro scandisce le giornate, le settimane, i mesi, gli anni, la vita: «Mi alzo alle 5.30. Nutro e vesto la creatura, mi vesto anch'io, vado a prendere il bus delle 6.30 che mi porta in fabbrica. Deposito la bambina nell'asilo nido e entro nell'officina. Ne esco alle 17.00. Riprendo la figlia, riprendo il bus, rientro. Faccio le spese nel negozietto del villaggio, accendo il fuoco (non c'è il riscaldamento centrale), preparo la cena, metto a dormire la bambina, lavo i piatti, scrivo un po', mi sdraio anch'io». E il marito? Non ne parla. Almeno non in quel racconto autobiografico; ma in altri racconti "impersonali" scrive di una coppia ungherese di rifugiati dove la donna fa la dura vita di operaia e di madre e lui studia, studia…

Il prezzo della libertà? Si chiede: «Ne valeva la pena? Non è troppo alto?».

Eccola confrontata con una nuova lingua, non scelta, impostasi per le circostanze, di cui ignora tutto. «Comincia qui una lotta per conquistare questa lingua, una lotta accanita che durerà tutta la mia vita».

Nelle pause operai e operaie le insegnano l'essenziale, toccandola: cappelli, occhi, mani, bocca, naso… indicandole quello che serve imparare: albero, strada, montagna, cielo, fiore, treno…
Scrive poesie, ancora in ungherese, legge e rilegge libri in ungherese. Ma la figlia, se lei le parla in ungherese, la guarda disperata, con gli occhi sbarrati. Nell'asilo nido ha imparato in fretta il francese. Piange se la mamma non capisce, piange se è lei a non capire. «Libera… di doversi tradurre»… Che può isolata la "lingua materna"?

Dopo 5 anni parla bene il francese, ma ancora non lo sa scrivere, non lo sa leggere. «Sono ridiventata analfabeta. Io che sapevo leggere all'età di quattro anni».

Non si rassegna a quella condizione di stallo: lascia la fabbrica, lascia il marito ungherese (o è lui che torna in Ungheria?), poco prima che la figlia inizi le scuole elementari, anche lei torna a scuola: di francese.

«Scrivere in francese: vi sono obbligata. È una sfida»

Più tardi sposerà uno svizzero francese, avranno altri due figli.

Notizie sulla bibliografia

«Quello che è sicuro è che avrei comunque scritto, non importa dove e non importa in che lingua».

La lingua sarà quindi il francese. E direttamente in quella lingua sono scritti tutti i titoli che seguono:

1987: Il Grande Quaderno (Titolo originale: Le Grand Cahier)
1988: La Prova (La Preuve)
1992: La terza bugia (Le troisième mensonge).

Il successo è quasi immediato. Questi tre romanzi brevi si potrebbero definire: "La triologia dei gemelli". Una scrittura scarna, essenziale, quasi banale, quasi piatta, per necessità e per scelta, sapientissima. In essi la "verità" è continuamente rimessa in discussione, capovolta, contraddetta da una "verità" parallela. Da tantissime menzogne e depistaggi. Questi romanzi sono pieni di enigmi: Chi è chi? Chi dice cosa? Chi scrive cosa? Enigmi che restano tutti, anche a rilettura conclusa. Assurdo chiedersi: dov'è la verità? Anche perché scrivere la verità costa, è troppo triste, quasi intollerabile, impossibile, non credibile, meglio correggerla. Questi libri lasciano sorpresi, indifesi, interdetti, spiazzati, contenti. I tre testi si succedono senza successione, si scavalcano, confondendo senza risparmio vero e falso. Sono, si deve dire! stupendi. Già tradotti, ad oggi, in una ventina di lingue.

Si può aggiungere: "esilio come principio di scrittura": dal suo paese, dalla sua lingua materna, dal suo sesso (si trasforma in un ragazzo per scrivere), dai suoi testi (sono i gemelli che scrivono). (4)

I titoli dati in italiano, anche dei libri successivi, sono tradotti dal francese, non conoscendo quelli editoriali dei libri tradotti. Magari corrispondono.
Gli altri titoli sono:

1995: Ieri (Hier)
2005: È indifferente (C'est égal)
2005: L'analfabeta: racconto autobiografico (L'analphabète : récit autobopgraphique)

Da quest'ultimo testo provengono le citazioni, è anche quello che accompagna l'informazione biografica, da lì riorganizzata, integrata, inventata, dove sembrava utile e inevitabile, magari ho indovinato.
Sui suoi testi teatrali ho trovato scarse notizie e non li ho ancora letti. Tutti gli altri più e più volte. Le sue prime poesie in ungherese nel trambusto della fuga non le ha prese con sè. Non risulta che le abbia recuperate. E il diario? Di quelle scritte in ungherese in Svizzera non ho trovato nessuna traccia: sono state pubblicate in quella lingua e/o tradotte e pubblicate in francese?
Sull'emigrazione

«Come spiegare, senza offenderlo, e con le poche parole di francese che conosco (allora… dirette al controllore svizzero francese dell'autobus che cerca di tranquillizzarla, ndt) che il suo bel paese per noi, rifugiati, non è che un deserto, un deserto che ci tocca attraversare per arrivare a quella che si chiama "integrazione", "assimilazione". Allora non sapevo ancora che certi non ci sarebbero mai arrivati».

Molto interessante il parallelo, senza gerarchie, tra "integrazione" e "assimilazione", la cui pretesa differenza (accettabile, non accettabile) tante diatribe continuamente provoca tra l'emigrazione, e oggi in Italia parlando di immigrazione e di accoglienza; qui indicano semplicemente un attraversamento, un possibile arrivo, tutto sommato un incontro.

Ne Il Grande Quaderno i due gemelli si portano dietro un grande dizionario; oggi lei racconta: ai figli che le chiedono qualcosa: un significato, un sinonimo, non dice mai: «Non lo so», ma dice sempre: «Aspettate un momento» e va a vedere su un vocabolario: dunque le parole, le lingue, la scrittura. Da una scrittura all'altra.

1) cfr. La letteratura dell'emigrazione / Gli scrittori di lingua italiana nel mondo, Jean-Jacques Marchand (a cura di), Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1991. Marchand, professore di letteratura italiana all'università di Losanna, ha creato anche un archivio informatizzato e periodicamente rinnovato, presso quella università, di tutti questi scrittori. Importante anche un altro studio-antologia, riferito ad un solo paese d'immigrazione: Giovanna Meyer Sabino, Scrittori allo specchio / Trent'anni di testimonianze letterarie italiane in Svizzera / Un approccio sociologico, Monteleone, 1996
2) cfr. Caroline Lüderssen e Salvatore A. Sanna, Letteratura de-centrata / Italienische Autorinnen und Autoren in Deutschland / Texte und Analysen, Diesterverlag, Frankfurt am Main 1995
3) cfr. Dal friulano all'italiano rischiando di morire, in: I colôrs da lis vôs, Pierluigi Cappello (a cura di), progetto Colonos, 2007
4) Un testo critico importante, che quest'ultima frase suggerisce, per capire meglio i primi tre: Valerie Petitpierre, Agota Kristof / D'un exil l'autre (Da un esilio l'altro), Genève 2000.

Pubblicato il

21.12.2007 04:00
Leonardo Zanier
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