Migranti, cosa sono diventati

«Il prototipo della famiglia straniera non esiste, esistono famiglie diverse a seconda del contesto storico in cui si sono venute a creare nel nostro paese, che risentono delle immagini che la società svizzera proietta nel corso del tempo sugli stranieri e che mutano a seconda del percorso fatto nel proprio paese d’origine e in seguito in Svizzera». A dirlo è il professor Claudio Bolzman che da vent’anni conduce studi sulle problematiche migratorie e interculturali e che martedì 6 settembre sarà ospite del “Quinto incontro informativo sull’integrazione degli stranieri - Migrazione e famiglia”(1) per parlare di “Famiglie straniere, progetti e processi di integrazione nell’attuale contesto migratorio svizzero”. Sul tema dell’evoluzione generazionale degli emigrati e delle loro famiglie ad un anno dalla doppia bocciatura della votazione sulla naturalizzazione (si veda anche area n.40 del 1.10.04) gli abbiamo posto alcune domande. Professor Bolzman, lei ha detto che «Gli immigrati non sono un problema, ma un’opportunità, se si offre loro la possibilità di far fruttare i loro talenti». Un anno fa, con la doppia bocciatura della votazione sulla naturalizzazione agevolata per la seconda generazione e automatica per la terza generazione, quell’opportunità la si è voluta negare. C’è da chiedersi se oggi quella votazione potrebbe essere riproposta con maggior successo. Con quella doppia bocciatura, il messaggio trasmesso ai cosiddetti Secondos (figli di emigrati di seconda generazione, ndr) è stato inequivocabile e amareggiante: la Svizzera non ha fiducia in loro. Più grave e paradossale ancora è ciò che è insito in quel messaggio e cioè che la Svizzera non ha fiducia nel suo stesso sistema educativo, nelle sue istituzioni, visto che i “Secondos” hanno compiuto tutto il loro percorso scolastico, o almeno gran parte di esso, nella Confederazione, e che molti di loro sono nati qui. Un anno fa la Svizzera ha perso l’occasione di acquisire nuovi cittadini che avrebbero potuto dare il loro contributo alla sua crescita politica e istituzionale. Purtroppo, temo che il risultato della stessa votazione al giorno d’oggi sarebbe ancora più negativo poiché verrebbe ad inserirsi in un contesto socio-economico non certo migliore di allora. Una vostra ricerca(2) ha cercato di capire quali sono i percorsi dei giovani figli d’emigrati nel loro processo d’inserimento socio-economico e di assimilazione culturale. Cosa è emerso? Abbiamo preso in considerazione soprattutto i giovani adulti (tra i 18 e i 35 anni) provenienti dalla migrazione italiana e spagnola e abbiamo osservato che quando vengono date loro le opportunità riescono bene sia nella vita scolastica che in quella professionale, alla pari dei loro coetanei svizzeri. Dagli anni Sessanta in poi, si è assistito ad un miglioramento del grado di scolarizzazione e del livello professionale dei giovani figli di emigrati rispetto ai loro genitori. Allora si diceva che la seconda generazione era una bomba ad orologeria, destinata a ricalcare le stesse orme parentali, secondo ciò che lo studioso Bourdieu definiva modello del “giovane operaio”, una fotocopia dello statuto appartenuto ai genitori emigrati e che li avrebbe candidati a diventare anche loro degli emarginati. Ed è stato così? No, alcuni nostri studi hanno dimostrato il contrario: fra i giovani della seconda generazione c’è una mobilità sociale ascendente. Gli ostacoli subentrano, a livello professionale, quando si tratta di posti pubblici, ai quali di solito accedono con più facilità i giovani svizzeri. Certo, rispetto agli anni Sessanta-Settanta, il settore pubblico non è più off-limits per i giovani figli o nipoti di emigrati che oggi vivono in un contesto dove la discriminazione e il pregiudizio nei loro confronti si sono attenuati. Lei fa sempre riferimento ai giovani di origine italiana e spagnola: ma per gli altri? Per gli altri la strada è ancora tutta in salita, si ritrovano a ripercorrere ciò che negli anni Sessanta e Settanta i primi emigrati italiani, spagnoli o portoghesi hanno vissuto. Si sa che a soffrire della discriminazione ed emarginazione sono sempre le ultime ondate migratorie. Se va a guardare i discorsi xenofobi che allora si facevano contro italiani, spagnoli vedrà che sono gli stessi che oggi si fanno contro gli emigrati della ex Jugoslavia: cambiano i bersagli ma la sostanza è la stessa. Insomma la storia si ripete. Si ripete ma con alcune differenze fondamentali. Per gli italiani e per gli spagnoli c’era un percorso d’integrazione, “alfabetico” (in quanto riferito ai permessi di soggiorno), di lunga durata. Cominciavano spesso come stagionali con un permesso A, se superavano determinate prove ottenevano il permesso B, quindi quello C e via dicendo. Era difficile ma c’era una strada e inoltre si trovavano in un contesto economico in continua crescita che richiedeva manodopera straniera. Per coloro che invece giungono oggi dalla ex Jugoslavia o da altri paesi le difficoltà per ottenere un permesso di soggiorno si sono moltiplicate. Senza contare che giungono in un contesto economico critico e dove loro sono la controparte in un Occidente versus i musulmani. Vi è dunque un pregiudizio implicito e diffuso che blocca la completa integrazione dei giovani di origine straniera. Certo, e questo a dimostrazione che il problema non è la mancanza di volontà d’integrazione delle seconde generazioni ma le barriere mentali e anche legali che essi incontrano. Nei processi d’integrazione dei migranti di seconda generazione, quale ruolo ricoprono le coppie “miste”? Qual è il modello predominante al loro interno, quello svizzero o quello straniero? Il modello, se così si può chiamare, è un qualcosa di nuovo che contiene elementi delle culture dei due partner. Il “modello” è la comunicazione stessa, la “negoziazione” che due persone di culture diverse operano per potersi avvicinare e condividere le proprie vite. E gli studi recenti dimostrano come i matrimoni fra autoctoni e stranieri siano un indicatore importante del grado di avvicinamento fra le diverse comunità esistenti in un paese. In questo caso di avvicinamento molto intimo. ______________________ 1) L’appuntamento è per martedì 6 settembre (ore 9-17), presso l’Alta scuola pedagogica, in Piazza San Francesco a Locarno. L’incontro è stato organizzato dalla Commissione cantonale per l’integrazione degli stranieri e la lotta contro il razzismo e dal Delegato cantonale all’integrazione degli stranieri. 2)“Que sont-ils devenus? Le processus d’insertion des adultes issus de la migration”, Claudio Bolzman, Rosita Fibbi, Marie Vial – Institut d’études sociales, Genève. Professor Bolzman, la doppia appartenenza culturale di un membro della seconda generazione di immigrati è stata considerata tradizionalmente sia come un segno di debole assimilazione che come una fonte di impedimento nel suo processo d’inserimento nelle strutture della formazione e del lavoro. Ma è ancora così? Negli anni Settanta, era idea diffusa che per avere successo professionale bisognava assimilarsi completamente alla cultura dominante, anche sul piano familiare. Ciò che invece osserviamo è che ciò non è assolutamente necessario, al contrario il conservare una cultura familiare, un po’ diversa aiuta nella promozione professionale. Penso alla solidarietà intergenerazionale insita nelle culture italiane e spagnole e che spesso induce i giovani quando traslocano, dopo il matrimonio, ad andare ad abitare vicino ai loro genitori soddisfacendo così un bisogno molto concreto: in questo modo i nonni possono occuparsi dei propri nipoti nell’eventualità che i genitori lavorino tutt’e due. Si tratta dunque di una solidarietà intergenerazionale che favorisce le donne emigrate. Anche la loro indipendenza. Si è visto infatti che dopo la nascita del primo figlio le giovani mamme italiane e spagnole hanno la tendenza a mantenere il proprio posto di lavoro, favorite dall’aiuto parentale nella cura dei figli, molto più che non le madri svizzere che con più difficoltà possono contare sui loro genitori. Qui in Svizzera, le madri italiane o spagnole hanno perpetuato un modus vivendi già assimilato: il lavorare fuori casa anche con la nascita dei figli. Situazione questa molto meno diffusa in Svizzera dove le madri avevano la tendenza dopo il parto ad abbandonare il lavoro non avendo chi poteva occuparsi dei loro figli. È un esempio di come l’assimilazione totale ad un modello dominante non è sempre la strada migliore da seguire e dimostra come alcuni valori culturali “importati” denotano maggiore efficienza sia dal punto di vista sociale che economico.

Pubblicato il

02.09.2005 01:00
Maria Pirisi