Il lavoro ha un «valore» che va al di là del reddito che lo retribuisce. Il fronte della battaglia sull’articolo 18, che impedisce i licenziamenti senza giusta causa, si situa sulla linea della «civiltà» e dei diritti della persona. Ai «patti neocorporativi» che il governo spaccia «subdolamente e maliziosamente» per riforme, Sergio Cofferati oppone una visione alta del lavoro, come progetto sociale che assicuri diritti identici e tutele equivalenti per tutti, dai collaboratori cosiddetti «atipici» con contratti modulati e a scadenza, ai «fissi» con contratti collettivi nazionali a tempo indeterminato. L’impianto della riforma che preconizza il leader della Cgil parte dunque dall’estensione dei diritti, irrobustendo le tutele, intrecciandoli con una serie di provvedimenti in mondo tale da «dare a tutti la possibilità di restare nel mercato del lavoro». Progetti e visioni d’avvenire che Sergio Cofferati ha urlato ai tre milioni di Roma, il 23 marzo, e ai quattrocentomila di Firenze, il 16 aprile, giorno dello storico sciopero generale.
Il cantiere aperto delle riforme comprende una revisione larga del sistema, la costruzione del nuovo edificio passa attraverso una vera e propria rivoluzione. Via la cassa integrazione, un ferrovecchio che è soltanto uno strumento per integrare il reddito, con costi impropri e inutili perché non creano «professionalità». Via anche i prepensionamenti che creano iniquità e danni al sistema previdenziale. Il nuovo mondo del lavoro, secondo Sergio Cofferati, si dovrà coniugare con i termini di «valore e difesa della professionalità», una frontiera che accomuna le imprese e i lavoratori. L’azienda non è l’antagonista del collaboratore, né tantomeno è vero il contrario. La modernizzazione del mercato del lavoro deve svolgersi paritariamente, curando gli interessi di tutti le sue componenti.
L’attività lavorativa fonda la dignità degli uomini. Il braccio di ferro con il governo diventa allora una battaglia per la civiltà. Un tema che Sergio Cofferati ha ripetutamente ribadito a sostegno del progetto di riforma della Cgil. Rispondendo alle nostre domande, il leader del maggiore sindacato italiano non manca di insistere sulla necessità di intraprendere la «via europea» investendo «nella qualità del lavoro, nella formazione, nella ricerca, nell’innovazione, nella valorizzazione delle intelligenze e del sapere».
Tutti sono pronti a riprendere il dialogo, ma nessuno è disposto a fare un passo indietro. La riforma dell’articolo 18 continua a congelare le relazioni tra governo e parti sociali. Una riscrittura più limitata dell’articolo 18 potrebbe riaprire il confronto?
Le richieste di Cgil, Cisl e Uil al governo, a sostegno delle quali milioni di lavoratori hanno scioperato, sono lo stralcio delle norme inserite nella delega sul mercato del lavoro riguardanti l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e l’arbitrato, oltre la modifica della delega previdenziale nella parte relativa alla decontribuzione per i nuovi assunti. Il governo continua a dire di volere una trattativa con le parti sociali, ma poi pratica soluzioni difformi da quanto afferma: si dice disponibile al dialogo e poi drammatizza i rapporti ponendo la fiducia su argomenti che
sarebbero oggetto di quel confronto. Il sindacato è sempre stato disponibile a discutere, ma una trattativa ci può essere solo dopo il ripristino di corrette relazioni e lo stralcio di quelle norme che impediscono un dialogo sereno e costruttivo. Se verrà confermata la loro indisponibilità allo stralcio, non ci saranno le condizioni per una ripresa del confronto.
La linea dura di D’Amato sull’articolo 18 ha incrinato i rapporti anche all’interno della Confindustria. Tanti industriali guardano con indifferenza al conflitto sullo Statuto, rilanciando i problemi della produttività e dello sviluppo. Qual è la sua opinione?
Non voglio entrare nelle discussioni aperte in Confindustria. Il problema della competitività delle imprese italiane è reale. Nel mercato unico politiche datate come quelle proposte dal governo sono inefficaci se non dannose. Pensare di aiutare le imprese italiane indirizzandole su una competizione di basso livello, basata esclusivamente sul contenimento dei costi è miope e dannoso per le stesse imprese. Si avrebbe invece bisogno di favorire l’eccellenza, di aumentare la qualità delle produzioni e del lavoro, di migliorare i servizi alle imprese, di favorire l’export e non certo da ultimo, di impegnare risorse consistenti nell’istruzione, nella formazione, nella ricerca e nell’innovazione. Tutti temi che il governo ignora.
Nelle aree più industrializzate del Nord sono due problemi su tutti: la delocalizzazione delle aziende all’estero e la manodopera. Come si possono favorire gli investimenti e, soprattutto, come va affrontato il problema della mancanza di manodopera?
C’è una certa dose di schizofrenia nel comportamento degli imprenditori. Da un lato hanno bisogno, per produrre e per crescere, dei lavoratori stranieri, dall’altro sono tra i primi ad appoggiare forze politiche che negano queste esigenze ed assumono comportamenti vicini alla xenofobia. Il bisogno di manodopera straniera è oggettivo. Il loro ingresso in Europa va programmato e deve essere affrontato nel rispetto dei diritti e dei bisogni di chi viene nel nostro paese per lavorare e far crescere le nostre aziende.
Le manifestazione del 23 marzo e lo sciopero generale del 16 aprile hanno avuto un grande successo e hanno dimostrato che gli italiani si mobilitano sempre sulle grandi questioni del lavoro e ideali. La Cgil è riuscita a ricomporre l’unità sindacale. Quali sono i rapporti con Pezzotta e Angeletti.
Cgil, Cisl e Uil hanno indetto insieme lo sciopero generale del 16 aprile e hanno già in programma altre iniziative unitarie. Siamo uniti nella difesa dei diritti e delle tutele dei lavoratori. Scambiare la diversità di opinioni su alcuni temi per una rottura o, ancor peggio, lavorare, come hanno fatto il governo e Confindustria in questi mesi, per dividere il sindacato è non solo miope, ma un errore politico gravido di conseguenze.
Roberto Maroni lancia il progetto «Welfare to work», che dovrebbe contenere la controparte alla sospensione dell’articolo 18 e mettere sul tavolo la riforma degli ammortizzatori sociali. Qual è la sua valutazione su questa nuova formula?
La bozza del piano nazionale per l’occupazione è stato presentato dal governo, a Cgil, Cisl e Uil, il 22 aprile. Le tre confederazioni si sono in seguito incontrate per discutere appunto di questo documento che l’esecutivo ci riproporrà a maggio sulla scorta delle indicazioni dell’Unione europea. Da parte nostra stiamo cercando di mettere a punto una proposta comune sugli ammortizzatori sociali che considero come uno dei pilastri centrali della riforma. La valutazione è semplice : fin qui il governo ha fatto proposte insufficienti e irrealizzabili, avanzando soluzioni sbagliate.
I dati mostrano che, dalla caduta del primo governo Berlusconi, l’occupazione segue un buon trend di crescita. È merito delle efficaci politiche del lavoro dei governi del centrosinistra, che il secondo governo del Cavaliere promette di rendere ancora più efficaci procedendo sulla via della flessibilità, con il concorso del padronato. Qual è la sua valutazione?
Il problema è, come ho già detto, che Confindustria, e il governo che la asseconda, hanno scelto la strada bassa della competizione. Invece che adottare la via europea alta, anziché investire nella qualità, nella formazione, nella ricerca, nell’innovazione, nella valorizzazione delle intelligenze e del sapere, nei settori economici di frontiera, si preoccupano esclusivamente di tagliare i costi. Si vuole dare mano libera agli imprenditori sui rapporti di lavoro, sulla sicurezza, sulla remunerazione. Nel frattempo si abbassano le protezioni sociali, si riducono i diritti dei cittadini e le loro tutele. Noi crediamo che la scelta dell’esecutivo sia la strada sbagliata. Con questa politica certo non si manterrà la crescita dell’occupazione.
A proposito di «via europea», Silvio Berlusconi si vanta di aver siglato un patto sul lavoro con Tony Blair. La «strana coppia», composta da un leader conservatore e uno laburista, punta a creare posti di lavoro attraverso un minor numero di regole. Può il rilancio del mercato esaurirsi nell’aumento della flessibilità?
Non ce n’è bisogno. L’Italia è il paese europeo con il maggior numero di strumenti di flessibilità. Io credo che il vero problema non sia quello di diminuire le protezioni sociali e i diritti dei lavoratori. Al contrario intraprendere quella strada sarebbe, per l’Italia, la via sbagliata. All’Italia serve un progetto di competizione che abbia un respiro veramente europeo. Ripeto: le leggi e i contratti italiani sono tra i più ricchi di strumenti di flessibilizzazione. Le aziende in realtà hanno il problema opposto: quello di tenere legata una manodopera diventata troppo mobile. Affinché la flessibilità sia utile ai lavoratori e alle imprese serve formazione, una rete di protezione sociale efficace, servizi per l’impiego.
Berlusconi continua a battere sul tasto sensibile della solidarietà generazionale, denunciando lo «sciopero dei padri contro i figli».
È il governo che sino ad ora ha tolto. Ai figli toglie i diritti, ai padri le sicurezze sociali. La verità è che lo sciopero del 16 aprile ha sancito un patto forte tra padri e figli. Lottare perché non sia possibile licenziare ingiustamente significa garantire tranquillità ai propri figli e ai propri nipoti. È la rivendicazione di un diritto che è sancito dalla nostra Costituzione Non si può pensare di voler dare ai giovani dei diritti e nel contempo accettare l’idea di toglierli ai padri. In questo caso credo che il governo abbia ancora una volta sbagliato messaggio. In realtà è l’esecutivo ad essere sia contro i padri che i figli.
Lei continua a negare di voler entrare in politica. Qualcuno ha giustamente osservato che se annunciasse una sua personale candidatura alla guida dell’opposizione, indebolirebbe la Cgil nella battaglia sulla riforma del diritto del lavoro. Tornerà davvero a fare l’impiegato alla Pirelli dopo la scadenza del suo mandato in giugno?
Come ho detto più volte la mia intenzione è lasciare a giugno il sindacato e tornare al mio lavoro.
Questo non significa che smetterò di occuparmi degli altri… |