Meno soldi, meno accoglienza, più precarietà. È il risultato concreto dei tagli al settore dell’asilo decisi in Ticino, ma anche a livello federale. Una politica di “razionalizzazione” delle spese pubbliche per questo settore che, però, finisce per colpire chi ha già poco o nulla: i richiedenti asilo. E che apre interrogativi legittimi sul rispetto dei diritti umani in Svizzera. La riduzione dei sussidi, l’adozione di strutture d’accoglienza sempre più spartane e l’indurimento delle condizioni di vita dei richiedenti asilo sono ormai una realtà. In nome del risparmio, persone già vulnerabili vengono spinte ai margini, in condizioni di povertà estrema. C’è chi vive con meno di 10 franchi al giorno. Chi non ha accesso a una cucina, a una connessione internet o a una stanza dove poter dormire da solo. Chi non può nemmeno comprarsi un biglietto dell’autobus per andare a un colloquio. Ma tutto questo non riguarda solo la povertà economica. Riguarda i diritti. Perché quando una persona non ha i mezzi per nutrirsi in modo adeguato, non può curarsi o vivere in un luogo dignitoso, è in gioco qualcosa di più profondo: la sua dignità. E con essa, i diritti umani che la Svizzera, sulla carta, si impegna a rispettare. La Confederazione è infatti vincolata da convenzioni internazionali – dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo al Patto ONU sui diritti economici, sociali e culturali – che impongono standard minimi di trattamento. Standard che, secondo diverse ONG e osservatori, oggi non sono sempre garantiti. In particolare, preoccupa la situazione dei cosiddetti “sans-papiers del sistema d’asilo”: persone la cui domanda è stata respinta ma che, per vari motivi, non possono essere rimpatriate. Per loro, la Confederazione ha previsto un’assistenza ridotta al minimo, nota come “aiuto d’emergenza”. In pratica, la sopravvivenza, ma niente di più. Anche il Tribunale federale si è espresso in merito, stabilendo che certi livelli di precarietà non possono diventare la norma. E che lo Stato ha il dovere di rispettare il principio di proporzionalità. Non si può creare povertà per dissuadere o punire. Eppure, questo è spesso l’effetto – se non l’intento – delle politiche attuali. Dietro le cifre e i regolamenti, ci sono storie. Madri sole con bambini piccoli. Persone fuggite dalla guerra o dalla tortura. Giovani che parlano perfettamente il dialetto ticinese, ma che non possono lavorare o studiare. Per loro, i tagli non sono solo una voce di bilancio: sono la differenza tra integrazione e marginalità. In un paese come la Svizzera, tra i più ricchi al mondo, con istituzioni che si definiscono democratiche e rispettose della dignità umana, la domanda è inevitabile: che tipo di società vogliamo essere? Una società che tratta le persone più vulnerabili come un peso da contenere, o una che difende i diritti di tutti, a prescindere dallo status giuridico? |