Meno è di più

Mentre sta terminando un anno tribolato e si va verso un anno e un mondo incerti, anche gli economisti navigano a vista o tendono a farsi filosofi. È singolare notare, leggendo dell’uno o dell’altro e delle loro previsioni, come si potrebbe ridurre il tutto ai due segni matematici, il più (+) o il meno (-). Ci si chiede, insomma, se l’avvenire sarà dell’uno o dell’altro segno.


Non è però solo fisima di economisti naviganti. Fior di presidenti, compreso il nostro, puntano sul più, quasi un obbligo per ogni governo delle società avanzate. O soprattutto del sistema economico: quando infatti i meccanismi del mercato si fondano sulla rarità è legge che bisogna avere sempre di più: più produzione, più informazioni, più scambi, più connessioni, più mobilità, più comfort ecc. Ed è appunto quando la rarità riappare per contingenze varie, come ora, che appare anche il terrore di un ritorno galoppante dell’inflazione, dell’aumento generalizzato dei prezzi, già in atto per le derrate alimentari, le materie prime e ormai annunciato per i tassi di interesse. Del “meno”, insomma, per il potere d’acquisto. Tra il più e il meno entrano quindi in campo protagonisti diversi. Con una singolarità, in questo fine d’anno particolare: si insiste maggiormente  sul meno. Cerchiamo di spiegarci.


Per una parte, che è poi quella dell’economia o delle organizzazioni economiche, proprio per mantenere il più, si pretendono meno produzioni legislative, meno burocrazia, meno spese pubbliche, meno imposizioni fiscali, meno spintarelle deresponsabilizzanti (sussidi, politiche sociali?), meno solidarietà infantilizzante. Per un’altra parte, in sintonia con la precedente, che è quella di movimenti più o meno popolari o di partiti pronti a creare e a cavalcare malumori o ribellioni, ci vogliono meno labirinti normativi per spazi dove si entra senza autorizzazioni, dove si passa senza lasciare traccia, da dove si esce senza controlli.


C’è tuttavia anche chi traduce il più in atto negativo e il meno in atto costruttivo. Ed è qui  che troviamo gli economisti filosofi. Filosofi perché vanno oltre l’economia, quella imperante, per indicare che non è il “meno” ma il “più” che genera la crisi, che è crisi di società. Così troviamo chi analizza appunto la crisi del più che è “crisi dell’abbondanza”: produciamo, ad esempio, una massa senza precedenti di rifiuti o di scarti, disponiamo di più tempo libero ma lo sprechiamo abbruttendoci davanti a uno schermo, viaggiamo e ci spostiamo a minor costo ma inquiniamo senza vergogna, disponiamo di crediti a basso costo e ci indebitiamo come se il domani non esistesse. La stessa  attuale penuria di materie prime riflette il rimbalzo della domanda mondiale, ma è parte, più di  prima, del rovinoso  paradigma dell’abbondanza.


È da quest’ottica che entra dunque in gioco il “meno”. Avremmo bisogno di meno per salvarci (in parte già lo si dice e lo si applica per cose minute: meno prodotti, meno imballaggi, meno idrocarburi, meno emissioni monetarie ecc.). Il “meno” è però un obiettivo durissimo da perseguire, la nostra stessa mente sceglie naturalmente il più.


Eppure i tempi attuali offrono all’umanità, forse per la prima volta nella storia, i mezzi per domare questa pulsione del “più”. Proprio secondo il principio di un famoso architetto tedesco che gli economisti filosofi cercano ora di fare proprio: meno è di più (“less is more”) o meno è meglio.

Pubblicato il

15.12.2021 16:15
Silvano Toppi
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