Medio Oriente, quei giorni grevi

Sono le 7.45 del 5 giugno di quarant'anni fa. In ondate successive, che si susseguono nell'arco di tre ore, 180 cacciabombardieri israeliani attaccano le basi aeree egiziane distruggendo al suolo l'aviazione di Nasser. Nella stessa giornata analoga sorte tocca all'aviazione militare giordana e a quella siriana. L'attacco preventivo deciso dal governo di Tel Aviv è pienamente riuscito: Israele ha il totale controllo dei cieli e può operare a suo piacimento sul fronte terrestre contro un nemico senza copertura aerea. Quella che passerà alla storia come la guerra dei sei giorni è a quel punto praticamente vinta, gli assetti strategici del Medio Oriente ne escono sconvolti determinandone il corso politico fino ai giorni nostri.

Se il micidiale colpo inferto da Israele giunge di sorpresa, è da settimane che lo scontro armato appare sempre più certo. Il clima si è arroventato dagli inizi di maggio a seguito delle sproporzionate spedizioni punitive lanciate da Israele per gli attacchi dei guerriglieri palestinesi che operano a partire dalla Siria. Il governo di Damasco denuncia la politica aggressiva di Israele, e chiede il sostegno dell'Egitto. In seguito Israele negherà di avere pianificato un attacco alla Siria, ma al momento non fa niente per smentirlo ed esso appare possibile non solo all'Egitto, ma agli stessi osservatori sovietici, ben presenti in Siria, che si mostrano preoccupati. Fatto sta che Nasser ci crede e da quel momento prende avvio un'escalation bellicista che si autoalimenta. Accusato da Siria e Giordana di inazione, il rais egiziano «sceglie la strada della dissuasione, drammatizzando la situazione, in modo da distogliere Israele dai suoi propositi» (1). Il bellicismo verbale della propaganda araba (in questo si distinguono le radio di Damasco e del Cairo che promettono la distruzione dell'«entità sionista in un mare di sangue») fa però il gioco di quanti in Israele premono per la guerra, considerata come l'unico mezzo per garantire la sicurezza dello stato, nonché per permettere ulteriori espansioni territoriali.
Nasser, sotto pressione siriana e spinto anche dall'opinione pubblica araba, resa convinta del promesso riscatto nazionale, non può più accontentarsi di far sfilare le truppe per le strade del Cairo. Così, dopo una prima richiesta formulata in toni tanto generici da non venire presa in considerazione, il 18 maggio chiede all'Onu di ritirare i caschi blu che stazionano in territorio egiziano lungo il confine con Israele. Lo Stato ebraico protesta, ma respinge la proposta del segretario U Thant di accogliere a sua volta le forze di interposizione sul suo territorio, possibilità che ha sempre rifiutato.
Le truppe onusiane si ritirano anche da Sharm el Sheikh che torna sotto controllo dell'Egitto che in tal modo riacquista l'intera sovranità nazionale dopo la sconfitta nella guerra del 1956. Si riapre così la questione della navigazione nello stretto che dà l'accesso al golfo di Akaba. Il 23 maggio il rais egiziano compie un ulteriore passo: il blocco del golfo alle navi israeliane e a ogni altro naviglio che trasporti armi o altro materiale strategico – a cominciare dal petrolio – verso il porto israeliano di Eliat. È la mossa che riunisce gli arabi attorno all'Egitto. Forse a questo punto Nasser pensa, una volta raggiunto il culmine della tensione di "poter obbligare Israele a un negoziato su tutti i problemi creati dalla sua fondazione… a concessioni più grandi sul problema del ritorno dei profughi e su quello delle sue conquiste del 1948" (2) Forse pensa di poter agire per il tramite dell'Onu, tanto che nello stesso giorno accoglie al Cairo il segretario generale delle Nazioni Unite, U Thant, "ma l'ondata che aveva scatenato stava ormai per sommergerlo" (3 ) e vani sono i tentativi (peraltro non molto determinati e convinti) della diplomazia internazionale di risolvere pacificamente il contenzioso. In Israele, dove l'opinione pubblica non ha motivi per non temere effettivamente le minacce arabe, la decisione dell'attacco viene presa con la formazione del governo di unità nazionale del 1 giugno: Begin diventa ministro, Golda Meir abbandona e Dayan sostituisce Eshkol al ministero della difesa.
Il conflitto dura sei giorni, sufficienti a Israele per conquistare il settore orientale di Gerusalemme, tutta la Cisgiordania, il Sinai e le alture siriane del Golan. Quest'ultime vengono attaccate il 9 giugno, dopo che Damasco aveva accettato la tregua intimata dall'Onu e quindi in aperta violazione della stessa. Le ostilità cessano alle 13 del 10 giugno. Israele avrà allora sotto il proprio controllo un territorio tre volte maggiore del suo.
Per i palestinesi è una nuova Nekba (catastrofe) dopo quella del 1948. In centinaia di migliaia sono costretti a lasciare le proprie abitazioni, andando a ingrossare i campi profughi di Giordania, Siria, Libano. Nelle terre occupate cominciano a sorgere i primi insediamenti ebraici: espropri e colonizzazione continueranno ininterrotti sino a oggi.
I dati del conflitto arabo-israeliano mutano: i territori occupati diventano la posta dei contendenti. Se a poco a poco gli arabi, a cominciare dai palestinesi, cominciano ad accettare l'idea della divisione del territorio con gli israeliani, in Israele «la vittoria rinvigorì i movimenti di opinione fortemente contrari alla cessione dei "territori"». (4) L'espansionismo, sia di tipo messianico sia nazionalistico, trova crescenti consensi e ancora oggi prevale sull'idea di una spartizione del territorio che pur ha cominciato a farsi strada dopo la guerra del 1973, quando sarà abbattuto il mito dell'invincibilità dell'esercito israeliano. Spartizione che oggi tutti ritengono inevitabile, ma che nessuna forza politica ha il coraggio di proporre in termini realizzabili per le due parti.
Così, l'occupazione, dopo quarant'anni, si perpetua. La violenza corrode l'esistenza dell'occupante e dell'occupato. Non ha torto lo storico Walter Laqueur quando afferma: «Niente è più terribile di una grande vittoria, tranne, naturalmente, una grande sconfitta»(5)

(1) Paolo Maltese, "Perché il IV conflitto
arabo-israeliano"?
(2) Maxime Rodinson: "Israël et le refus arabe"
(3) Ibidem
(4) Benny Morris, "Vittime"
(5) Ibidem

Il mistero della Liberty

Le guerre non finiscono mai.. Quarant'anni dopo continuano a emergere dati su quel conflitto che, pur non portando elementi di assoluta novità, contribuiscono ad alimentare polemiche. Così, lo scorso marzo, un documentario israeliano ha risollevato il problema dei prigionieri di guerra egiziani massacrati dai soldati israeliani. L'ultimo episodio denunciato concerne l'uccisione di 250 prigionieri nel Sinai, ma diversi altri episodi del genere erano noti e ammessi dagli stessi responsabili israeliani. E probabilmente perché testimone di uno di questi casi ( l'esecuzione di 150 prigionieri nel centro di raccolta di El Arish) la nave spia americana Liberty, che stazionava al largo del Sinai, venne attaccata dall'aviazione israeliana l'8 giugno del 1967. I morti furono 34 e i feriti 171.
Successive indagini hanno chiarito che i ripetuti bombardamenti della nave miravano ad affondarla e a sterminarne l'equipaggio; che la Casa Bianca intervenne per impedire che i caccia delle portaerei Usa che incrociavano nel Mediterraneo accorressero in suo aiuto ingaggiando in tal modo un aperto conflitto con i caccia israeliani;. che le pressioni dell'Esecutivo dissuasero il Congresso statunitense dall'aprire un'inchiesta ufficiale accontentandosi della versione ufficiale israeliana dell'errore.

Pubblicato il

01.06.2007 03:30
Gaddo Melani