Quarant’anni fa moriva Max Horkheimer, il filosofo che diresse l’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, ne traghettò le attività negli Stati Uniti durante gli anni del nazismo, fece ritorno in Germania nel primo dopoguerra e compì poi un nuovo movimento di esodo, negli anni Cinquanta, scegliendo il Canton Ticino quale ultima meta della sua esistenza. Horkheimer è universalmente riconosciuto come il fondatore della “teoria critica”, una posizione filosofica estremamente influente, formatasi nel periodo di trapasso dal fallimento della rivoluzione in Germania all’avvento del nazismo e perfezionatasi in seguito, alla luce sia della critica dello stato autoritario sovietico sia della società dei consumi di tipo americano, nata dall’intreccio di marxismo e psicoanalisi e intessuta di motivi di matrice ebraica. Così come per l’Antico testamento il volto di Dio è irrappresentabile, analogamente per la teoria critica la verità non può né deve mai essere determinata e identificata con qualcosa di storicamente presente, essa deve piuttosto resistere come un principio critico capace di far emergere di continuo ciò che non va, ossia i costi e le contraddizioni, gli intrecci di violenza e diritto, caratterizzanti di volta in volta le realtà storiche. Lasciando sempre presagire che un altro tipo di razionalità e di società, un'altra realtà, resta possibile. Non a caso, negli anni del suo trasferimento in Ticino, a Montagnola, a chi gli domandava se avesse scelto quel luogo dove risiedeva anche il nobel Herman Hesse come luogo per trascorrere la pensione, egli rispondeva stizzito. E in un appunto scritto dal suo inseparabile amico, l’economista Friedrich Pollock, si legge: «Horkheimer si rifiuta di condurre un’esistenza da pensionato. Dobbiamo tacere se qualcuno che è responsabile della morte di 15.000 bambini siede ancora al governo? È giustificabile tacere, mentre il nostro compito, come intellettuali, sarebbe urlare con veemenza ciò che non va?». Domenica 7 luglio la figura e l’opera di Max Horkheimer verranno ricordate proprio a Francoforte, con la partecipazione di personalità come Axel Honneth e Rolf Wiggershaus. Nel mio intervento cercherò di mostrare come non sia interamente giustificato il giudizio negativo formulato sull’ultimo Horkheimer, quello di Montagnola, da parte di alcuni importanti interpreti. In sostanza gli si è rimproverato di aver indebolito la tensione critica originaria del suo pensiero e di essersi in sostanza “sistemato”. Al di là degli elementi legati alle rivalità accademiche presenti in questi giudizi, occorre dire che Horkheimer, con Friedrich Pollock, preparò a lungo la decisione di trasferirsi nel villaggio ticinese. Il filosofo e l’economista si impegnarono meticolosamente quali committenti di due case gemelle che si fecero poi effettivamente costruire, su progetto di Peppo Brivio, nel 1958. Perché lo fecero? In uno testo a quattro mani, scritto per prendere quella decisione, si legge: «La nostra vita deve essere una testimonianza; realizzare l’utopia nel più piccolo dettaglio. Vogliamo l’altro, il nuovo, l’incondizionato. La nostra vita è seria. Da noi le leggi sociali non devono vigere. Oggi, che è così tardi, non possiamo più sprecare tempo. Dobbiamo creare condizioni nelle quali tutte le nostre forze agiscano nel nostro senso più proprio. Soprattutto l’ingegno e l’esperienza di Max». Evidentemente, essi erano rimasti estremamente delusi dal modo in cui la cosiddetta denazificazione veniva condotta in Germania, e guardavano a quella realtà, già intenta a dare un colpo di spugna sul passato, con lo stesso sguardo incredulo testimoniato poi dai romanzi di Heinrich Böll. Fortemente delusi essi lo erano anche dal progressivo “tradimento statolatrico” dell’ebraismo in corso di realizzazione in Israele, così come dall’avvento “all over the world” di una tecnocrazia incurante di una effettiva democrazia. Fu dunque soprattutto la loro fedeltà all’essenza critica della verità a far loro compiere questo secondo esilio in un luogo allora molto appartato. Così come fu ancora sempre questa tensione critica a portare l’anziano Horkheimer, a Montagnola, poco prima di morire, a intitolare “per il non conformismo” il pensiero conclusivo della sua ultima opera, e a progettarvi “la formazione con metodi attuali di collettivi inattuali”, chiamati a “difendere il singolo nello spirito di un’autentica solidarietà” e a sviluppare una “critica della demagogia”. Ricordare Horkheimer, di conseguenza, significa raccogliere la lezione di una teoria critica attenta anche all’azione, tendente a divenire pratica critica. Significa, in altri termini, contribuire ad affrontare quello che resta un nostro problema. |