Mario e il "Coopi"

Mario Comensoli “scoprì” il Cooperativo quando quello storico locale era ancora situato al numero 36 della Militärstrasse nel quartiere 4, il quartiere popolare di Zurigo, chiamato anche comunemente “Kreis Chaib”, quartiere “carogna”. Andava a mangiarvi il minestrone con Ezio Canonica, giovane sindacalista in attesa di spiccare il volo verso alti traguardi, e in quel locale un po’ buio che ospitava al primo piano la Scuola libera italiana, fondata dagli antifascisti, aveva l’impressione che il tempo si fosse fermato. Sospesa nella penombra quell’aria cospirativa e sospettosa che vi era ristagnata dentro per decenni, tra i ritratti di Carlo Marx, Jean Jaurès, Matteotti e Turati, e quel busto in bronzo di Dante Alighieri «con un naso a piscione da far spavento e l’ espressione arcigna» come annotava Franca Magnani nelle sue memorie di “Una famiglia italiana”. Era l’inizio degli anni Cinquanta e Comensoli, emigrato a Zurigo da Lugano sul finire della guerra, guardava a quell’ambiente con diffidenza e simpatia. Era ormai terminata l’esperienza parigina che l’aveva tenuto lontano da Zurigo per diversi mesi sull’arco di tre anni, aveva alle spalle una mostra al museo Helmhaus nella quale aveva compendiato le sue ricerche nel solco della pittura postcubista e stava meditando un mutamento radicale della sua figurazione sempre più orientata al racconto dei destini dell’uomo. La diffidenza nasceva dal suo spirito anarchico, che aveva ereditato dal padre, originario della provincia di Massa Carrara, refrattario cioè a farsi ingabbiare da un’ideologia e da un sistema politico. La simpatia nasceva dal forte richiamo all’umanesimo che quel locale gli tramandava: sapeva infatti che in recenti anni bui attorno a quei tavoli si ritrovava gente minacciata d’espulsione verso l’Italia fascista, gente che metteva a repentaglio la propria esistenza per difendere la dignità dell’uomo, calpestata in quel Paese cui suo padre aveva voltato sdegnosamente le spalle, stracciando il passaporto. Il vecchio sindacalista Augusto Vuattolo, un friulano che aveva conosciuto il carcere in Germania ed era stato minacciato d’espulsione dalla Svizzera, gli ricordava i nomi di tanta gente che dal Cooperativo aveva “cospirato” contro il regime di Mussolini: la Balabanov, Silone, Nenni, Saragat, Pacciardi, Delogu, Lussu, Schiavetti, il fondatore della Scuola libera. Appendere alle pareti di quel locale un suo dipinto – “Domenica”, del 1954, un grande olio che rappresenta una festa campestre e che nell’ossatura formale echeggia ancora movenze postcubiste – era stata idealmente per Comensoli una consacrazione pari forse a quella della mostra dell’Helmhaus. Alle volte a tenere compagnia al pittore, Canonica e Vuattolo si aggiungevano Ettore Cella, figlio del gerente del Cooperativo, e Reni Mertens, prima traduttrice di Bertolt Brecht in italiano. E Cella, attore e regista, sfoggiando la sua impareggiabile mimica, imitava la reazione dello stesso Brecht quand’era venuto per la prima volta al Cooperativo. «Come? – era insorto il drammaturgo tedesco – Avete esposto il busto di Karl Marx e ignorate quelli di Stalin e Lenin?». E Cella, prontissimo: «Da noi non c’è posto per i dittatori». Dal canto suo Mertens vantava il successo dei suoi lunedì letterari dove si potevano incontrare personalità come Georg Lukàcs, lo stesso Brecht e il suo allievo regista Benno Besson, Zavattini, Vittorini e Silone. Ascoltando quelle appassionate testimonianze a Comensoli riusciva sempre più facile giustificare il suo distacco dagli insegnamenti di Parigi, mentre si rafforzava in lui la convinzione che la pittura non doveva essere dominata da preoccupazioni formali e da cabale astratte, ma puntare diritta al cuore della realtà. E così l’artista celebrato dal pubblico un po’ snob dell’Helmhaus si era improvvisamente deciso a portare tra la folla operaia del primo maggio che seguiva il discorso di Walter Bringolf all’Helvetiaplatz due cartelloni che rappresentavano, il primo, tanti cadaveri di bambini sovrastati dal fungo atomico, e l’altro un gruppo di lavoratori solidali di diverse razze. Erano anni di guerra fredda e questo gesto gelò di colpo l’ entusiasmo nei suoi confronti di una certa intelligentija che non voleva sbilanciarsi a sinistra (l’ostilità della “Neue Zürcher Zeitung” maturò in quel momento e si protrasse fino alla mostra del Kunsthaus del 1989) e che – improvvisamente – scopriva in lui un fastidioso sovversivo. E Mario Comensoli avrebbe fatto anche di peggio, abbandonando la “peinture du mouvement” che aveva elaborato a Montparnasse con Giuseppe Orazi, carica di reminiscenze letterarie e cubiste, per inaugurare l’epoca degli “operai in blu”. Archiviata l’insostenibile leggerezza di quelle composizioni, il pittore stava infatti scoprendo la “nuova estetica” dei lavoratori immigrati, cioè di quella gente che dalle regioni meridionali d’Italia aveva intrapreso il viaggio della speranza in Svizzera. Una pittura che – come ha scritto recentemente Silvia Evangelisti – è ormai «una scelta di campo, volontà di partecipazione, di conoscenza della realtà contemporanea e del presente nella sua verità esistenziale». Tra i pochi critici che avevano approvato la svolta, il ticinese Guglielmo Volonterio che aveva proposto a Comensoli di illustrare il suo libro “Le bontà”. E proprio commentando le illustrazioni del volume, sempre da Lugano, Carlo Cotti scriveva al suo ex allievo: «Sono disegni che si impongono per la forza viva che li anima. Anche colui che, come me, fugge il realismo in arte, dimentica i suoi princìpi preso dall’attrattiva che scaturisce dalla violenza dei giochi di bianco e nero e dalla misura dei valori espressivi». Nel 1955 al ristorante Cooperativo Mario Comensoli consegna un altro prezioso dipinto “Operai che leggono il giornale” tipico della serie dei “lavoratori in blu”. La citazione ironicamente picassiana della fase blu si riconduce alle tute di lavoro degli operai che nella pittura di Comensoli si trasformano in un nobile drappeggio: e tuttavia è lontana dal pittore l’idea di fare di questi operai dei mitici eroi di battaglie proletarie. Da qui un’inconciliabile divergenza ideologica con Renato Guttuso, con il quale Comensoli avrà uno spiacevole scambio di opinioni in occasione della sua unica mostra in Italia, a Roma nel 1962. Invece di un’arte ideologica proiettata alla riconquista di un mitico paradiso perduto, Comensoli – per citare un saggio di Pietro Bellasi – ci offre una «monumentalità dimessa», epurando il suo realismo da ogni tipo di retorica dottrinaria, cogliendo da una parte la dimensione istantanea del presente, e dall’altro il «consueto, anzi il triviale della vita quotidiana». «L’arte non può essere pedagogia sociale» scrive infatti Mario Comensoli in quegli anni. Per diversi estimatori è questo il suo periodo creativo più importante, per altri sarà più grande il pittore degli ultimi dieci anni di vita, capace di tradurre sulla tela attraverso un impasto drammatico dei colori e una grafia allucinata una disperazione esistenziale che non è solo personale ma che investe i significati di un’epoca senza più certezze. Il '68 entra nella pittura di Comensoli Nel 1965 il Cooperativo entra in possesso di un dipinto che anticipa una nuova svolta: “Tre ragazze con giovane operaio”. Nel dipinto l’uomo si concede una siesta attorniato da giovani in minigonna: i colori delle calze e delle gonne sono vivaci, le ragazze sembrano uscite da una boutique e il giovanotto porta la barba, che in quegli anni è già un vezzo intellettuale. L’olio di Comensoli prefigura ormai il Sessantotto. Un Sessantotto che sconvolge anche la vita del Cooperativo, che nel frattempo si è trasferito nei locali più ampi, luminosi e ariosi della Strassburgstrasse dove si trova ancora oggi. Sono cambiati i suoi frequentatori che sono un po’ quelli riflessi nel dipinto. Studentesse e studenti, sindacalisti in carriera, operai più coscienti del loro ruolo sociale, femministe, giornalisti orientati a sinistra, cui si aggiungeranno più tardi gli avvocati dell’Anwaltskollektiv, che riducono le parcelle ai più poveri, guidati da Moritz Leuenberger e Marco Mona. Ezio Canonica è diventato presidente centrale del Sel e tuttavia lo si può vedere, ai primi sintomi dell’estate, seduto in canottiera con l’immancabile sigaretta (e proprio così lo rappresenterà Mario Comensoli) mentre discute con il sindacalista Romeo Burrino, Willi Ritschard, Dario Robbiani, il fedele Karl Aeschbach o il mitico gerente del Cooperativo Tonino Ferrari, di questioni politiche. A un altro tavolo un gruppo sta delineando altre strategie: sono studenti che si distribuiscono i ruoli in due formazioni di calcio dopolavoristiche, ribattezzate tra un bicchiere di Chianti e l’ altro Karl Marx e Bakunin. Perché come scriverà Eros Costantini sul “Corriere del Ticino” in occasione del 75esimo anniversario del locale, «chiunque in questo secolo abbia avuto dimestichezza con il rosso (da quello cupo come il Barbera a quello tenue come il Rosatello) ai tavoli del Cooperativo ha trovato di che dissetarsi, in tutti i sensi». Ai tavoli dove negli anni del fascismo si ordivano trame per sconfiggere il nemico in Italia e in Spagna, sono approdate le utopie di chi sogna l’emancipazione della donna, il trionfo dell’Eros, e vi si esercita la critica marcusiana allo sfruttamento e alla repressione degli istinti. Mario Comensoli osserva questo microcosmo con occhio critico e attento, alle volte porta al Cooperativo gli scrittori Hilty e Diggelmann o il critico Fritz Billeter che indulge a tesi politiche invise all’amico. Per un titolo sul “Tages Anzeiger” (“Der Maler als Unruhestifter”, “Il pittore come agitatore”) a significare la funzione “rivoluzionaria” degli artisti, si chiamino essi Ferdinand Hodler o Comensoli, quest’ultimo gli toglierà il saluto per un po’. Sì perché niente è più fastidioso a Comensoli di un’etichetta: «L’avanguardia – racconta all’amico Frank A. Meyer – non si manifesta nella forma che comunemente viene definita avanguardia. È piuttosto quanto di vivo esiste nell’opera d’arte, indipendentemente dalla forma scelta dall’artista. L’avanguardia è, per così dire, un atto d’amore nei confronti della vita che ci pulsa attorno. I personaggi della mia pittura mi permettono di penetrare nel cuore della società, di confrontarmi con essa, di misurarmi con le sue continue metamorfosi». In due tele che il Cooperativo gli acquista in quegli anni (“Dimostrazione” del 1969 e “Siege der Sozialismus” del 1972) egli mette l’operaio al centro delle rivolte giovanili, ma se nella prima il robusto lavoratore in canottiera al centro dei manifestanti è visto come un figura plausibile e reale, un gladiatore pronto a gettarsi nella mischia, nella seconda la “tuta blu” con il garofano rosso è chiusa in un ovale, come un’immaginetta, è un’autocitazione tra l’ironico e il nostalgico. È ormai aperta polemica con chi gli rimprovera di avere lasciato alle spalle la pittura corposa e monumentale dei lavoratori immigrati, ma Comensoli non ha ripensamenti. Intanto lo stesso Ezio Canonica fatica non poco a giustificare le nuove opere di fronte a sindacalisti e operai che si sentono traditi da una pittura che compendia ormai le più disparate esperienze formali, collegando – per citare Silvia Evangelisti – «quasi in un montaggio cinematografico, il realismo delle immagini all’espressionismo del colore, all’arte popolare dei manifesti, alle immagini del cinema e dei rotocalchi, alla maniera della pop art inglese più che di quella americana, ma con modi tutti suoi». Non verrà meno comunque in Mario Comensoli l’indignazione – le radici di chi ha condiviso la solidarietà degli umili sono ancora scoperte – di fronte a velenose tendenze che esalano dalle viscere profonde della società. Una delle ultime sue opere affidate al Cooperativo è “Der Fremdenfeind”, “Il nemico degli stranieri” (1969-70): sullo sfondo di uno Schwarzenbach grigio e accigliato, un giovane apollineo di classiche sembianze mediterranee flirta con una leggiadra Elvezia, che si è calata sul capo un elmo guerriero. Al di là dei suoi trasparenti significati allegorici, il dipinto mette in gioco un’accattivante qualità cromatica e rispecchia quella capacità tutta comensoliana di trasferire osservazioni dal reale su un piano satirico di tipo rabelaisiano, attraverso modi trasgressivi e radicali. * Si ringrazia la “Rivista di Lugano”

Pubblicato il

17.09.2004 04:00
Mario Barino
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