Esce nelle sale del mondo arabo un nuovo cartoon per grandi e piccini. Una produzione della Badr International dal titolo “Maometto, il sigillo dei profeti” (“Mohammad khatim el anbia’”). Il film è per il momento presentato nelle sale senza sottotitoli. I personaggi parlano l’arabo classico (fussha), ovvero la lingua standard presente in tutto il mondo arabo-islamico a partire dalla diffusione del Corano e diversa dai dialetti regionali – iracheno, egiziano, algerino, siriano, eccetera – parlati dalla gente della strada nei singoli paesi. La storia non presenta nulla di eccezionale dal punto di vista creativo poiché ricalca in tutto e per tutto i momenti essenziali della vita del Profeta a partire dall’età adulta – poco o nulla si sa, contrariamente a quanto accade per Gesù, della sua vita infantile - vale a dire dal momento in cui nella caotica città della Mecca, dove Mohammad è uno fra i tanti commercianti di buona famiglia della regione, un kureishita sposato alla più agiata Khadija, riceve dall’angelo Gabriele (Gibreel) le prime rivelazioni di quello che diventerà poi il Corano. Nulla di eccezionale dal punto di vista creativo e forse nulla di eccezionale dal punto di vista della qualità del cartoon, ovvero della rappresentazione stilizzata dei personaggi della vicenda profetica. Di ben diversa qualità e inventività era, qualche mese fa, il bellissimo “Aladino” il cui Genio della Lampada fu magistralmente doppiato da Gigi Proietti. Ma qui appunto ci troviamo di fronte a una narrazione di ordine religioso, di ordine sacro, e probabilmente (al di là della qualità tecnica) molti condizionamenti sono stati imposti alla regia e alla sceneggiatura affinché non venissero alterate le verità canoniche della missione di Mohammad attraverso il libero esercizio della fantasia creativa. Ovvero affinché non si dicesse né più né meno di quanto il mondo musulmano è abituato a sentirsi raccontare da 1400 anni a questa parte. A riprova di questa “fedeltà” alla versione ufficiale della storia profetica è l’imprimatur – che scorre sullo schermo prima ancora dei titoli d’apertura – dell’università egiziana di Al Azhar, la massima istituzione islamica nel mondo arabo e organo di legittimazione supremo di ogni attività o produzione direttamente o indirettamente legata all’Islam (letteratura, cinema, televisione, eccetera). Ma al di là di questo ricalco al limite del didascalico della versione canonica della vita del Profeta (si mormora tuttavia che molti ritocchi e tagli sono stati compiuti prima della diffusione del film) ciò che val la pena ritenere è che questo cartoon presenta una singolare vicinanza nei toni del racconto come in alcune scene rappresentate con quello che potremmo definire lo “spirito cristiano”. Se è vero infatti - e in ottemperanza all’iconoclastia tipica dell’Islam il Profeta Mohammad non viene mai presentato visivamente sullo schermo - che per lui come per i suoi primi compagni a renderne la presenza è esclusivamente la telecamera che ne accompagna i movimenti e lo sguardo “al di qua” dello schermo, o al più la testa del suo cammello vista anch’essa sempre di spalle, è anche vero che molti spezzoni del film ammiccano in maniera esplicita allo “spirito cristiano” e al rapporto fra Islam e Cristianesimo. Due in particolare. La missione di uno dei portavoce del Profeta alla corte del Re etiope cristiano, che accoglie favorevolmente l’avvento dell’Islam iscrivendolo (senza opporvisi) nell’alveo del monoteismo, e ricacciando in malo modo il meccano politeista che tentava di mostrarne l’infondatezza; e la grande battaglia compiuta dai seguaci del Profeta contro il cospicuo esercito della Mecca alle porte di Medina (Yathrib), durante la quale quest’ultimo venne annientato da un vento celeste che ne rase al suolo l’accampamento, al canto reiterato di “Allah huwa akbar, Allah huwa akbar” (“Allah è l’altissimo, Allah è l’Altissimo”). Il primo esempio è la conferma che il film intende portare un chiaro messaggio di conciliazione fra le due religioni – Islam e Cristianesimo – e rivolgersi al pubblico cristiano affinché sia chiaro come fin dai primissimi anni della sua diffusione quella che oggi (e non solo oggi) è diventata una relazione di attrito e di latente inimicizia non aveva nessuna ragion d’essere. Anzi, era una palese ed esplicita alleanza dei due monoteismi contro le forme di idolatria rappresentate dal politeismo, e peggio ancora dall’ateismo, dall’incredulità e dall’ignoranza (jahiliya). Il secondo esempio mostra invece come l’evento prodigioso, miracoloso, sia messo in primo piano per sottolineare la predilezione di Allah verso i suoi nuovi seguaci. Fatto che per un cristiano non suscita nessuna sorpresa – è al miracolo reiterato che il Nazareno affidò per tutta la sua vita i segni dell’elezione divina – ma che all’interno del mondo islamico non ha mai avuto una vera centralità, tant’è che fra i capisaldi della fede musulmana si pone quello di misconoscere la natura “divina” di Cristo come figlio di Dio e si sottolinea a più riprese la natura “umana” in senso stretto di Mohammad, eletto da Allah ma uomo in carne ed ossa a tutti gli effetti, come ogni altro. Questi due esempi mostrano dunque come il film “Mohammad” abbia cercato, nella sua essenzialità e didascalicità, di accentuare l’elemento ecumenico e di farlo proprio sul terreno di quello “spirito cristiano” che ha contraddistinto e contraddistingue l’immaginario collettivo dell’universo dei fedeli occidentali, e più in generale cristiani. Dialogo fra le religioni e miracolosità degli eventi storici della vita del Profeta sono entrambi elementi di un evidente ammiccamento alla conciliazione e alla distensione. Tuttavia il rimprovero che va mosso a questa produzione è di non essere riuscito a uscire dagli stereotipi della morale corrente. Cioè di aver presentato la storia profetica in forma di un manicheismo fra bene e male che rende “incredibile” le virtù dei suoi protagonisti proprio per l’enfasi esagerata e fin troppo didattica messa nel sottolineare questa radicale distinzione fra buoni e cattivi. Un approccio che in altri tempi o verso un pubblico predisposto a tale dicotomia a priori potrebbe senz’altro funzionare, ma che ai nostri tempi, e soprattutto verso un pubblico più smaliziato, finisce per suscitare una dubitosa sensazione di “propaganda islamica a buona mercato”. Questione che in se stessa non avrebbe nulla di drammatico e che tuttavia lascia l’amaro in bocca, trattandosi di un film e non di un comizio politico. Poiché laddove la morale si innesta in un discorso creativo e artistico - e lo fa con grossolano didatticismo - il bene e il male finiscono per apparire concetti privi di sostanza. E, peggio ancora, pericolosamente in bilico sul precipizio del... kitsch.

Pubblicato il 

06.12.02

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