Manto e i raga di strada

Il fermo dei 16 giovani minorenni a Chiasso – dei quali però solo alcuni sono risultati autori di diversi piccoli furti nella regione del Mendrisiotto – mette in luce un malessere non più riducibile a singolo episodio isolato e che necessita di essere preso a carico e guardato con serietà e attenzione. Il disagio “visibile” che si incontra sulla strada dunque non è più soltanto identificabile – come spesso accadeva fino a poco tempo fa nel territorio cantonale – con le persone con problemi di tossicodipendenza, di alcolismo. Si tratta spesso di persone, giovani, che pur necessitando di un sostegno non arrivano, per motivi diversi, a chiedere aiuto ai servizi sociali preposti nelle città del cantone. Ne sa qualcosa l’ispettore Mauro Mantovani della Polizia comunale di Chiasso che, sebbene non indossi le canoniche vesti dell’operatore sociale, da alcuni anni cerca di offrire sostegno e aiuto soprattutto ai giovani disadattati e con problemi di tossicodipendenza che ogni giorno incontra per le vie della città e della regione del Mendrisiotto. L’immagine dei 16 ragazzi riuniti in una banda dedita a furtarelli più che uscita da una piccola e circoscritta realtà come il Ticino sembra rimandare – seppur con le dovute proporzioni – ad una realtà metropolitana, connotata da contesti periferici di forte emarginazione sociale. «Purtroppo – ci dice l’ispettore Mauro Mantovani – la situazione si è andata deteriorando, soprattutto in posti come il quartiere Soldini. Vedo tante famiglie disagiate che non riescono più a gestire i loro ragazzi [si veda box, ndr]. Ci sono mamme che mi telefonano perché non sanno più cosa fare e mi chiedono d’intervenire, di parlare loro. Sono minorenni e giovani adulti. Tra loro vi sono ragazzi e ragazze che, se non recuperati in tempo, possono anche correre il pericolo di essere agganciabili come piccoli spacciatori». L’ispettore Mauro Mantovani, solo pochi anni fa non avrebbe potuto immaginare che un giorno lui, agente di polizia, si sarebbe ritrovato a fare in realtà ciò che fanno gli operatori di strada ossia quegli operatori sociali che intervengono direttamente sul territorio, laddove il disagio matura. Poi col passare del tempo e stando a contatto con le situazioni più disagiate della città in cui opera, Chiasso, si è reso conto che la sua professione avrebbe acquisito un senso più profondo e nuovo se non si fosse limitato a reprimere le conseguenze del disagio che vedeva (e vede) soprattutto fra i giovani. Ha cominciato per ciò a cercare di capire, di ascoltare la sofferenza dei giovani che contattava, di fare ciò che in altri termini viene definita opera di prevenzione. Ora lo conoscono tutti a Chiasso, è diventato un punto di riferimento e il suo nome ha acquisito familiarità fra coloro che vivono situazioni di disagio e di tossicodipendenza. «Mio malgrado – spiega l’ispettore – mi sono ritrovato in prima linea a contatto con numerosi casi sociali, talvolta disperati. Ed è stato a quel punto che, tempo fa, mi sono posto la domanda: ma non sarebbe meglio, anziché limitarmi alla denuncia quando constato infrazioni, cercare prima di ascoltare le persone, di capire il perché sono arrivati a quel punto? Non sarebbe meglio cercare di fare qualcosa per il loro reinserimento?». Così da tre anni l’ispettore Mantovani ha cominciato a collaborare strettamente e quotidianamente con il sociologo Marco Galli, caposervizio della Previdenza sociale di Chiasso. «Si può dire – afferma Mantovani – che lavoriamo in tandem. Il mio compito è quello “di primo intervento”, ossia di contatto. Sia ben chiaro: non pretendo e non intendo sostituire gli assistenti sociali, né tantomeno gli operatori di strada: cerco solo di mettere a disposizione il mio ruolo per rendermi utile laddove più c’è bisogno. E posso farlo anche perché godo dell’avallo del mio comandante Nicola Poncini che, compresa l’importanza del mio operato, mi ha incoraggiato a perseguire». Crede molto, l’ispettore, nel contatto umano: «L’ascolto è fondamentale – prosegue –. Basta poco per sciogliere il ghiaccio con chi si trova in una brutta situazione. Il solo fatto di cercare di capire, di dialogare apre uno spiraglio alla fiducia. Spesso, dopo, mi confessano di sentirsi meglio solo per il fatto che abbiano potuto sfogarsi con qualcuno. A seconda dei problemi che hanno mi rivolgo ai Servizi sociali oppure alle Antenne, se soffrono di tossicodipendenza. Io mi limito talvolta a dirimere delle liti, anche familiari, a fungere da mediatore in situazioni in cui magari il ragazzo scappa di casa per un diverbio con i genitori». Di certo l’ispettore Mantovani non rispecchia lo stereotipo del poliziotto. «Credo che – continua – bisogna essere lungimiranti, fare tutto il possibile per capire, soprattutto quando ci si trova in presenza di giovani, che bisogna saper investire le proprie energie per far sì che possano avere una possibilità di recupero. E sento che è molto più pagante e costruttivo agire in questo modo. Tengo un diario di tutto quello che faccio che, col tempo, mi ha dato la dimensione di quanto sia importante investire nella prevenzione e nel recupero». Lui, dice, ha avuto la fortuna di vedere alcuni giovani che si sono “messi a posto”. «Fra quelli che incontro, molti sono sbandati – racconta – si sentono abbandonati a se stessi (e non solo giovani). Sono stato chiamato anche quando un adolescente ha tentato il suicidio: si sentiva incompreso dalla madre che doveva star fuori tutto il giorno per lavoro e soffriva molto per questo». Ma il fatto che sia un poliziotto, non costituisce un ostacolo, non innesca il meccanismo della diffidenza, dato che di solito l’agente è visto prevalentemente nel suo ruolo repressivo? «Dipende da come ci si avvicina alle persone – ci spiega –. Sono 10 anni che faccio questo lavoro e a Chiasso mi conoscono tutti. Quando parlano di me, dicono “vado dal Manto, parlo col Manto” [Mantovani, ndr], questo significa che ormai sanno che sì faccio il mio dovere ma lo faccio soprattutto ascoltando e cercando di dare una mano. Preferisco che mi vedano come un’ancora, un salvagente che non come un rigido tutore dell’ordine». Questa confidenza, questo essere disponibile, spesso non gli permette di avere una vita privata. «È il rovescio della medaglia: succede – dice – che mi chiamano a casa ma quando lo fanno è perché si tratta di situazioni disperate ed io cerco e cerco di fare quello che posso, rimandandoli ai servizi competenti. D’altronde se si comincia a dire di no, che non si ha tempo, si rischia di rovinare un rapporto di fiducia conquistato con fatica. Confesso che il tutto richiede molta energia ma si hanno al contempo molte soddisfazioni. Vedere un ragazzo che si mette a posto appaga di più che tante denunce, questo è sicuro. È chiaro che di fronte ad un reato ho il dovere di agire come ufficiale di polizia, quando però mi ritrovo a farlo mi preoccupo anche di rassicurare il giovane che, una volta messosi a posto con la legge, io sono lì pronto a sostenerlo ed aiutarlo. Penso ad un giovane pregiudicato brasiliano, i genitori pretendevano che trovasse lavoro da un giorno all’altro. Ma senza l’aiuto dei servizi sociali, dell’orientatore professionale sarebbe stato estremamente difficile per lui avere il coraggio di attivarsi per trovare uno sbocco. È già difficile per un giovane locale, figuriamoci poi per un giovane straniero con precedenti penali…». Il recente fermo dei minorenni a Chiasso, secondo l’ispettore Mantovani, è un segno del crescente disagio fra i giovani fra i quali potrebbe inserirsi una figura di riferimento. «Sarebbe auspicabile anche a Chiasso un operatore di strada – dice – che riesca a conquistarsi la fiducia di quei giovani problematici e possa fungere da testa di ponte fra loro e i servizi sociali. A mio parere manca e il fatto che nel mio ufficio ultimamente ci sia la processione e i telefoni squillino continuamente, lo dimostra. Sarebbe però importante che la persona incaricata conoscesse bene il territorio e avesse anche le doti umane, oltre che professionali, per essere ben accetto. A Chiasso, ad esempio, non esiste (come d’altronde neanche a Lugano) una cosiddetta “scena aperta” della droga e i tossicodipendenti si spostano laddove si sposta lo spaccio». Sì perché il problema più grosso è agganciare i ragazzi. «Il lasciapassare – spiega – sono loro a decidere se dartelo o meno. Però quando conquisti la fiducia di alcuni, questi mettono in atto un passaparola e spronano gli amici a rivolgersi a me se hanno problemi. Non è facile arrivare dappertutto, eppure bisogna capire che in certi casi è davvero dura per alcuni ragazzi uscire fuori da situazioni di disagio. Spetta a noi andare loro incontro». La disperazione a 15 anni «Quando bevo, riesco finalmente a dormire e non pensare ai problemi della mia famiglia». Così ha risposto uno dei 16 ragazzi fermati dalla Polizia comunale di Chiasso a Bettina Matern Rivieri, animatrice del Centro giovani Chiasso che gli chiedeva del perché avesse rubato dei superalcolici. La frase è riportata in una lettera inviata alla “Regione” (14 dicembre 2005) dalla stessa animatrice che racconta di un disagio drammatico vissuto da molti ragazzi della regione del Mendrisiotto. Un disagio che non riguarda solo gli stranieri (della banda solo due lo sono) e che parte da una parola conosciuta, povertà, anzi in questo caso miseria. Bettina Matern Rivieri racconta di aver dovuto fare la spesa perché il ragazzo si potesse nutrire non potendo garantire che quel cibo potesse sfamare anche gli amici. Il ragazzo avrebbe bisogno di una collocazione in un foyer «ma chi vorrebbe accoglierlo non ha personale e posti a sufficienza, conseguenze delle misure di risparmio cantonali (conosciamo le storie di chiusure di istituti).» E l’animatrice conclude con un amaro interrogativo: «Possibile che tutto dipenda solo dai soldi? O forse esistono persone condannate a rimanere nella loro miseria? Allora in futuro non avremo una gang di 16 ragazzi, ma di 30 o 40 che creeranno maggiori “disturbi”».

Pubblicato il

16.12.2005 02:30
Maria Pirisi