Mamma Elvezia espelle i suoi figli

L'incredibile storia di un bimbo che dovrà lasciare il paese perché alla mamma è stato revocato il permesso. Manuele Bertoli: è "apartheid”

Espulsa. Nata in Ticino da genitori italiani e cresciuta fino all’età di dodici anni nel Luganese, rientrata in Svizzera nel 2009, dovrà lasciare il paese entro il 30 giugno. Lei e suo figlio di venti mesi, svizzero.

È la triste storia, e per molti versi assurda, di Francesca (nome di fantasia) di cui avevamo scritto nell’articolo correlato. L’intimazione ad abbandonare la Svizzera le è arrivata dall’Ufficio della migrazione nei giorni successivi all’uscita dell’articolo. Lo stesso ufficio cantonale che da due anni le stava trattenendo il permesso di dimora (B) senza fornire spiegazioni alla diretta interessata.


Un documento originale inviato da Francesca a inizio 2014 per notificare il cambiamento d’indirizzo in vista dell’arrivo del figlio. Un documento mai restituito che aveva bloccato la procedura di naturalizzazione di Francesca. Una procedura giunta a buon punto a inizio 2013, dopo il superamento dell’esame di cittadinanza, era in attesa di esser visionata dalla commissione petizioni di Lugano per la valutazione finale. Una valutazione mai avvenuta perché bloccata dall’assenza del permesso originale trattenuto dall’Ufficio migrazione, che al suo posto inviava un foglio sostitutivo da rinnovare ogni tre mesi. Mentre il permesso era sospeso nel limbo, la vita fa il suo corso. Francesca dopo aver perso il lavoro per decesso del datore, diventa mamma e il suo bimbo acquista la cittadinanza svizzera dal padre. Il rapporto tra i genitori poi s’incrina e Francesca beneficia degli assegni di prima infanzia.


Ad aprile si fa vivo l’Ufficio migrazione. Dapprima sollecitando Francesca nel chiarire la sua posizione attuale. Lei dà seguito all’invito, spiegando in modo dettagliato la sua situazione. Qualche settimana dopo e pochi giorni sucessivi all’articolo, Francesca riceve una raccomandata di poche righe dove la si informa che il suo permesso B è revocato perché non ha mezzi propri ma beneficia di assegni di prima infanzia. Assegni che le saranno disdetti in seguito alla nuova legge decisa a dicembre che ha improvvisamente cambiato da 5 a 8 anni ininterrroti in Svizzera il periodo per poterne beneficiare. Purtroppo Francesca è rientrata da 7 anni, uno in meno. «Sono nata e cresciuta in Svizzera e la riconosco come la mia patria, ma devo anche riconoscere che in nessun altro Paese dove ho vissuto mi sono sentita e mi hanno fatta sentire “straniera” come nella mia terra» aveva detto ad area Francesca.


Ora le autorità si spingono oltre, espellendo nei fatti anche un proprio cittadino di soli venti mesi. Questo perché non si può pretendere che il neonato viva lontano dalla madre. O forse sì?
La dottrina e la giurisprudenza elvetica hanno stabilito che, nel caso dell’allontamento del padre o della madre, il diritto alle relazioni genitore-figlio è salvaguardato dalle moderne possibilità virtuali. Ciò vuol dire che la mamma e il bambino potrebbero continuare a vedersi via skype. Francesca rifiuta di essere una mamma virtuale e dunque, espellendo lei, deve andarsene anche il bimbo. A fare le spese dell’espulsione sarà il rapporto affettivo con il padre e i nonni paterni che si stava progressivamente ricostruendo. Le autorità cantonali erano informate di questa relazione, sia perché Francesca lo aveva scritto nella recente lettera all’Ufficio migrazione, sia perché altri servizi statali stavano seguendo la vicenda. Ma, da quanto appurato da area, non esiste nessuna procedura o direttiva interna che imponga al funzionario dell’Ufficio migrazione d’informarsi presso altri servizi cantonali per una valutazione complessiva prima di decidere. Nemmeno la procedura di naturalizzazione in corso, bloccata dallo stesso ufficio da un paio d’anni per un documento mai restituito, è considerata un fattore rilevante. L’ufficio comunale competente non è stato consultato ne informato della decisione di revoca del permesso. Nell’applicare la legge l’unico criterio che conta è l’entrata economica del genitore. Il benessere del bambino è un optional.
Nello specifico, la conseguenza sarà che un cittadino svizzero di venti mesi sarà privato del rapporto col padre fin dai suoi primi anni di vita. Per una decisione del suo paese. Anche il piacere di farsi viziare dai nonni con regolarità gli sarà precluso. Padre e nonni, rigorosamente svizzeri, a loro volta vittime di una decisione statale che gli porterà lontano il loro figlio e nipote.


Irrivelante pure che la momentanea difficoltà economica della madre sia dovuta a un diritto soppresso improvvisamente dal governo nell’arco di due settimane. Ininfluente anche il fatto che Francesca a inizio giugno terminerà la sua formazione specialistica post laurea iniziata per potersi ricollocare sul difficile mercato del lavoro cantonale. Eppure proprio grazie a questa formazione ha buone prospettive, se non certe, di sfociare in un concreto impiego. Ciò che conta è la cinica applicazione della legge, senza sconti. Con buona pace del bimbo di 20 mesi, nei fatti è costretto a lasciare il suo paese per volere dell’autorità cantonale.


Il finale della vicenda non è ancora scritto. Sostenuta legalmente da Unia, Francesca ha inoltrato ricorso contro la decisione, chiedendo l’effetto sospensivo della revoca. Un ricorso che approderà sui tavoli del Consiglio di Stato. Uno dei tanti casi che con una certa frequenza il governo cantonale è chiamato a decidere, come raccontato dal consigliere di Stato Manule Bertoli nell’intervista sotto. L’esito non è scontato. Quel che è certo è che ve lo racconteremo.

 

 

 

L'opinione del Consigliere di Stato Manuele Bertoli

Qualche giorno prima dell’arrivo della lettera di revoca del permesso a Francesca, il Consigliere di Stato Manuele Bertoli aveva espresso un’opinione sul Corriere del Ticino proprio sul tema della separazione dei figli dai genitori legate alle revoca dei permessi di residenza per motivi economici. Una sorta d’invito alla resistenza umana all’applicazione cinica di una legge dai tratti disumani. Area ha voluto sentirlo per approfondire il senso del suo intervento.

«Proviamo a guardare queste vicende con gli occhi di chi sia particolarmente attaccato al valore della nazionalità. Dei cittadini svizzeri, cioè i figli di queste persone, per motivi di soldi non hanno il diritto di crescere con entrambi i genitori vicino a loro. Siamo dunque in presenza di un trattamento discriminatorio nei confronti dei cittadini svizzeri. Quei figli sono svizzeri di serie B perché con minori diritti rispetto ad altri figli svizzeri. Non è il mio punto di vista prediletto, ma cerco di analizzarlo secondo chi ha a cuore il criterio della nazionalità. E lo trovo ingiustificabile anche da quella prospettiva». Spiega ad area Manuele Bertoli, che in qualità di membro del governo è chiamato insieme ai colleghi a decidere sui ricorsi delle persone colpite da revoca del permesso emessi dall’Ufficio della Migrazione.


Contro la discriminazione subita dai figli svizzeri (e non solo) Bertoli si era espresso qualche giorno prima sul Corriere del Ticino. «L’apartheid è già qui. Viene esercitata in modo discreto, ha il vestito della festa dell’imprimatur legale, ma la sua natura è quella» scriveva sul foglio luganese il consigliere di Stato. «Decisioni come queste vengono prese regolarmente qui da noi, adesso, giorno dopo giorno, in applicazione di una legge che discrimina in maniera molto severa chi ha soldi da chi non ne ha, chi ha qualche competenza da far valere sul mercato del lavoro da chi ne ha poche» aveva aggiunto. La giustificazione della discrimanazione è sempre la stessa: è la legge. Approvata anche dal popolo, in questo caso. «Anche l’apartheid poggiava su una legge - osserva Bertoli - Non per questo non la si è criticata e, fortunatamente, abolita. Che le leggi debbano essere applicate, è pacifico. Se però la loro applicazione causa dei problemi, queste vanno affrontate o perlomeno tematizzate. Ritengo dunque corretto informare delle conseguenze di questa specifica legge, perché meno note o intuibili di primo acchito al cittadino».

 

Nel suo testo lei scrive di fare della resistenza a queste decisioni che con una certa frequenza trova sul tavolo del governo. Una resistenza umana che fa breccia, trovando alleanze in governo?

«Sono convinto che umanamente non sia semplice per nessuno. Nella pratica però non trovo sostegni. Non per questo rinuncio a tematizzarle ogni volta, perché ritengo sia doveroso esprimersi. Naturalmente sarei più felice se si ottenessero dei  risultati positivi. Non dico su tutti i casi, perché ognuno ha una sua storia. Ma varrebbe la pena ragionarci, invece di accettare le bocciature preconfezionate dal servizio giuridico».                

Pubblicato il

11.05.2016 22:41
Francesco Bonsaver

Attende il passaporto da anni, ora rischia l'espulsione

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