Malta, l'isola dove si arenano i migranti

Nello scalcinato bar davanti al centro di identificazione per migranti di Marsa il tempo non passa mai, per ucciderlo si gioca a domino e a biliardo, o si cerca di intravedere il mare aperto oltre le navi arrugginite alla deriva sulla banchina del porto. Tutto in questo angolo ricorda l’Africa, non solo le lingue con le quali interagiscono le persone presenti intorno ai tavolini fuori o il profumo speziato della carne sulla brace, ma persino il vento caldo e secco che proprio da quel continente proviene. Per un misterioso scherzo della geografia, Malta è un ingresso meridionale della fortezza Europa. I centri abitati uniti in un’unica grande conurbazione ricordano la Sicilia, il vicino oriente, e l’impero coloniale britannico, i suoi abitanti parlano una lingua semita vicino all’arabo tunisino e hanno cognomi siciliani, iberici, arabi o ebraici. I turisti che ogni estate arrivano in quest’isola, affollano le sue spiagge e i lungomari ricchi di alberghi e pub, ma poco conoscono probabilmente delle migliaia di rifugiati che si sono ritrovati confinati su questo scoglio in attesa del loro futuro. Il loro numero esatto è sconosciuto persino alle organizzazioni umanitarie che operano sull’isola per il supporto dei richiedenti asilo, qualcuno parla di 5.000 persone altri di oltre 10.000. Tra queste una delle più attive sul territorio è Kopin, un’associazione locale che attraverso progetti educativi e di formazione cerca di promuovere un’“accoglienza sostenibile” e un punto di incontro tra comunità locale e straniera.


Come spiegano Dominik e William chiunque arrivi irregolarmente a Malta, viene condotto negli screening center, dove rimarrà per un massimo di 15 giorni per essere identificato, registrato e dove verranno valutate le condizioni psicologiche e sanitarie.


La detenzione, rispetto agli anni precedenti al 2015, non è più immediata, ma è prevista per chi ha un visto scaduto o è privo di documenti e può prolungarsi anche per tempi indeterminati in condizioni restrittive e in mancanza di informazioni dall’esterno. Ciò dipende anche dalle relazioni diplomatiche che Malta ha con i paesi di provenienza dei migranti o con quelli a cui viene fatta richiesta d’asilo.

 

In fuga da Salvini
Per gli altri, specie per chi ottiene l’asilo o trova un impiego, lo Stato mette a disposizione degli “open center” per alloggiarvi, cinque su tutto il territorio nazionale, e un reddito minimo per chi vi risiede, senza però garantire cibo e altri servizi assistenziali al suo interno. Generalmente nei sovrappopolati “open center” le persone hanno libertà d’entrata e d’uscita per recarsi a scuola o al lavoro, ma chi esce da tale circuito, spiegano gli operatori di Kopin, difficilmente può rientrarvi.


Secondo l’Unhcr, solo nel 2018, ci sono stati 1.445 arrivi con barconi irregolari dalla Libia, persone provenienti soprattutto dalla stessa Libia, dal Sudan, dal Bangladesh, dal Corno d’Africa e dalla Siria. Ma la tendenza attuale, come concordano gli operatori delle Ong, è quella soprattutto di ragazzi che provengono dall’Italia, giunti su questa vicina isola sia per la ricerca di un lavoro, sia a causa della politica di respingimento e dei “porti chiusi” del Ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini.


Abdurrahman, un tuareg della Libia, qualche mese fa risiedeva proprio in un Centro di Accoglienza nei pressi di Catania. Mostrando le foto di riparazioni di frigoriferi e centraline, racconta fieramente che in Italia lavorava come elettricista.
Si è ritrovato a Malta perché dopo la chiusura del centro non sapeva dove altro recarsi, ma nonostante un permesso di soggiorno italiano, come ad altri nella sua stessa condizione, un ritorno in Italia gli è stato negato dalle autorità maltesi, mentre quelle italiane non gli stanno fornendo un adeguato aiuto. Alla domanda sulla situazione nel proprio paese risponde che «in Libia le persone hanno perso completamente la testa, lì quelli di colore li uccidono come mosche, il resto della mia famiglia ha preferito fuggire in Nigeria».


A Ħal Far, in un’area industriale e desolata nei pressi di un ex hangar dell’aviazione inglese, si trovano due “open center” di cui uno esclusivamente riservato alle famiglie. Quello principale è costituito da una fila di bianchi container disposti l’uno sopra l’altro, dove in ognuno di essi vivono almeno sette-otto persone, ma nonostante il nome l’ingresso è negato sia ai giornalisti che ad alcune Ong. L’ex edificio di detenzione invece è stato comprato da un privato che affitta ai rifugiati camere per cento euro a persona al mese. Intorno al centro, si trova PeaceLab, un’organizzazione attiva da trent’anni gestita da un frate francescano di 89 anni, Padre Dionysus Mintoff, aiutato da Livingstone, uno studente keniota. Il suo piccolo studio, che ingloba anche la camera da letto, è ricolmo di libri e riviste in più lingue. «Il Papa è l’unico in questo secolo che dice davvero qualcosa sui rifugiati, lui invita ad aprire i conventi, purtroppo questo poche volte succede». Mintoff nel suo piccolo giardino ospita una cinquantina di richiedenti asilo, provvedendo anche al cibo, ma come ripete umilmente ciò che fa «è soltanto una goccia nell’oceano».


Nello stesso spazio è attivo la mattina un Infopoint e un Caffè allestito in una baracca da un gruppo di ragazzi locali, “Ħal Far Outreach”, un punto di riferimento per i bambini e gli adulti dei centri limitrofi così da offrire supporto linguistico e informativo, e l’intenzione a breve è di allestire una biblioteca specialmente per i più piccoli.


Mike seduto sulla rotatoria vicino a PeaceLab, è scappato dal Gambia perché si era innamorato della figlia di un potente Imam locale, con la quale ha avuto un bambino che adesso non può neppure sentire per telefono. Se non fosse stato in pericolo di vita, sarebbe rimasto nel proprio paese, dove gestiva una lavanderia: «Nessuno vorrebbe andare via da casa propria, io amavo la mia città, ma in Africa non sei libero di essere te stesso, se sei di un’altra religione, o hai un diverso orientamento sessuale, o hai determinate idee politiche puoi rischiare la morte o la prigione a vita».


Sulla strada che da Ħal Far porta a Birzebbugia, lo scorso aprile, un ragazzo ivoriano di 42 anni, Lassana Cissè, è stato ucciso da colpi di arma da fuoco, nell’attacco sono state ferite altre due persone. L’inchiesta, ancora aperta, ha portato sotto processo come responsabili dell’omicidio due soldati della antistante base militare. «Già in passato ci sono stati altri episodi simili» racconta un volontario che preferisce l’anonimato «probabilmente i soldati, come fanno abitualmente, non hanno trovato gatti o conigli a cui sparare».

 

Cresce l’estrema destra
Sebbene non abbia ottenuto seggi nel Parlamento europeo, l’estrema destra locale, rappresentata soprattutto da Imperium Europa, nelle ultime elezioni europee ha triplicato il numero di voti dalla sua nascita nel 2000.
Neil di Aditus Foundation – Ong nata nel 2011 da un gruppo di avvocati per assicurare l’accesso dei diritti umani ai rifugiati –, afferma che le ragioni principali che vertono intorno al discorso xenofobico a Malta si fondano, oltre che sullo spazio limitato del territorio isolano, sulla paura dell’invasione islamica che minaccerebbe l’identità cattolica di Malta, nonostante molti migranti africani siano essi stessi cristiani.


In contrasto con questo sentimento diffuso, la chiesa, la quale a Malta gode di una forte autorevolezza, fornisce, con varie associazioni all’interno di un forum comprendente tutte le altre Ong, sia alloggi propri che assistenza per trovare lavoro, o organizzare matrimoni e funerali. Padre Alfred Vella della Malta Emigrants’Commission, organizzazione caritatevole nata inizialmente nel 1950 per assistere i maltesi che emigravano all’estero, ha ampliato il proprio campo d’azione negli ultimi anni rivolgendosi così a «tutti coloro in movimento» senza nessuna distinzione etnica o religiosa. Il problema principale però, come spiegano Vella e altri operatori, è l’alto costo della vita e degli affitti, e la piaga del lavoro nero che contemporaneamente abbassa i salari.


Continuamente infatti intorno a Marsa o a Ħal Far, passano furgoni per raccogliere i migranti e portarli a lavorare a giornata nei vari cantieri che sono stati aperti negli ultimi anni in tutte le città dell’isola per la costruzione di nuove abitazioni e alberghi di lusso.


Un fenomeno, quello della recente speculazione edilizia, che sta creando un timido dibattito nella società maltese a causa soprattutto dei collassi dei nuovi edifici, delle case sfitte, e della qualità dell’aria. Ai migranti che lavorano sulle gru o sulle impalcature, non viene fornita alcuna protezione, gli incidenti e le morti sul lavoro sono all’ordine del giorno, e le spese per gli eventuali infortuni sono tutte a carico del lavoratore. «Una denuncia del datore di lavoro, potrebbe costare la perdita del permesso di lavoro» conferma John un ragazzo somalo da poco rientrato dall’ospedale. «Per gli imprenditori locali i migranti che arrivano soprattutto dall’Italia sono un’opportunità perché li possono sfruttare come manodopera a basso costo, spesso alcune persone arrivano a Malta come vittime del traffico di esseri umani, portate qui con la forza da losche agenzie di lavoro nei propri paesi d’origine con promesse fittizie» spiegano i volontari di Kopin.
Guardando i roventi container di Ħal Far, Ali che scappa dalla Somalia di Al Shabaab, afferma che «l’Europa invece di rinchiudere le persone dentro i centri, dovrebbe offrir loro un’istruzione, perché molti di loro hanno grandi capacità, vi si possono trovare medici e informatici, queste in un futuro più pacifico tornerebbero poi in Africa per migliorare i propri paesi come avvenne con la decolonizzazione». La sensazione di abbandono e isolamento è un sentimento diffuso tra i migranti presenti a Malta, come ben illustra Ahmed Bugre, un sudanese fondatore della Foundation for Shelter and Support to Migrants: «I migranti, fin da subito sono rinchiusi nei centri di identificazione, venendo così percepiti negativamente dalla società circostante, dai media, e dalla politica, come portatori di malattie e invasori islamisti, così che essi stessi finiscono per autoescludersi ed emarginarsi».
Al Valletta Film Festival, in una serata sulle migrazioni organizzata dall’Unhcr, con la partecipazione di varie organizzazioni, l’equipaggio della Ong tedesca Lifeline Rescue, racconta del sequestro da parte della magistratura maltese della propria nave che soccorreva migranti nel Mediterraneo. I 243 migranti che erano a bordo sono stati distribuiti in otto Stati diversi, il comandante costretto invece a pagare 15.000 euro di multa. «Da quando il governo italiano ha chiuso i porti, coloro che salvano persone in mare sono sempre più criminalizzati e la nostra attività resa più difficile» afferma Hamida.


Il mar Mediterraneo che lambisce le coste di Malta ingurgita continuamente corpi di esseri umani, corpi di persone sconosciute che il sogno di un avvenire spinge a sopportare il deserto e le violenze nei campi di prigionia in Libia. Coloro che sono naufragati su quest’isola, hanno trovato forse un rifugio e una speranza come altri in passato. Oppure una prigione, che porta comunque il nome di Europa, ma dalla quale non si può partire per nessun altro luogo.

Pubblicato il

26.06.2019 18:53
Francesco Bassano e Giacomo Sini