Il S. Gottardo è da sempre la via di comunicazione per eccellenza, delle merci e delle genti, tra il Nord e il Sud Europa. Il grave incidente del 24 ottobre e il relativo blocco dell’omonimo traforo ha creato un’ulteriore strozzatura nella struttura dei trasporti europei. Ma ha anche messo in evidenza, se ce n’era ancora bisogno, la fragilità e la frenesia irrazionale di un’economia basata essenzialmente sui trasporti stradali. Quali le conseguenze immediate e i rimedi a una situazione che diventa sempre più drammatica? Ne abbiamo parlato con l’economista Silvano Toppi. Signor Toppi, la chiusura del tunnel per un periodo di tempo che si prospetta lungo rischia di sconvolgere la struttura dei trasporti svizzeri e europei. Paradossalmente questo potrebbe accelerare il passaggio delle merci dalla strada alla ferrovia. Lo crede possibile? Si è quasi tentati di dire che in questo strambo mondo la sola alleata della ragione sia ormai diventata la catastrofe. Insomma, deve sempre arrivare il peggio per tentare un esame sulle cause, sulle conseguenze, sui possibili rimedi, sulle eventuali mosse per evitarne una sicura replica. A me sembra che in tutto questo ci siano perlomeno due ingredienti che più paradosssali non si può. L’uno di carattere generale: viviamo in un’economia che ha fatto dell’anticipazione e della rimozione del rischio la sua strategia fondamentale, nutrita di modelli econometrici premiati con il Nobel. Ma forse vale solo per la finanza. Non vale ad esempio per i trasporti. Per quale motivo? Dapprima perché il guadagno complessivo (della ditta di produzione, della ditta di trasporti, del padroncino) è infinitamente superiore all’eventuale costo del rischio (l’incidente, i feriti, i morti); poi perché la maggior parte del costo del rischio e delle sue conseguenze viene ribaltato sulla comunità (si pensi al San Gottardo). Conta quindi esclusivamente la massima produttività, anche per far fronte alla concorrenza sfrenata: tempi di percorrenza, quantità trasportata, massimo sfruttamento del personale (si spiegano in tal modo le 17 o addirittura 24 ore di guida ininterrotta e il fatto, ormai accertato, che perlomeno il 25 per cento del traffico pesante che attraversa il corridoio-Ticino non è in regola). Quanto più elevata è la produttività, quanto maggiore è la deregolamentazione (camion selvaggio, scarsi controlli), quanto più forte e politicamente temibile è la corporazione degli autotrasportatori (opposizione ai controlli, a tasse, minacce di blocco, ottenimento di sempre maggiori investimenti per i trasporti gommati), tanto più sicuro sarà il guadagno ma anche il condizionamento stesso della politica, della vita economica e quindi l’obbligo di assunzione del rischio da parte della comunità. Un rischio accettato L’altro elemento paradossale è che tutti hanno detto: «catastrofe annunciata». Quindi erano note le cause che un giorno o l’altro potevano portare a tanto ma si è accettata la moltiplicazione esponenziale del traffico pesante (gli accordi da calabraghe con l’Europa l’hanno fatto subito aumentare del 20 per cento) e dunque la moltiplicazione esponenziale del rischio. Se si agisse così in Borsa sarebbe la sospensione immediata delle trattazioni o la chiusura. Per tutti questi motivi ritengo che la catastrofe potrebbe risvegliare la ragione e indurre sia a controllare il traffico pesante, sia a limitarlo, selezionarlo, contingentarlo (costringendolo tra l’altro ad una migliore razionalizzazione), sia ad accelerarne il passaggio alla ferrovia (che è poi l’unica alternativa seria). Potrebbe. Stando però alle prime mosse e alle prime reazioni si può essere solo scettici. Il primo rimedio contro il rischio è stata la richiesta del raddoppio della galleria, così che la catastrofe è diventata semplicemente il miglior supporto dell’iniziativa «Avanti» (non si pensa neppure agli ulteriori dieci anni di rischio!) e un atto d’accusa contro gli ambientalisti; poi non si è andati più in là delle alternative camionistiche più irrazionali: San Bernardino, pronti ad accettare un rosario di disastri e di morti (già avvenute); supplicazioni affinché si scelgano altre vie alpine, altrettanto disastrate; parcheggi momentanei lungo gli assi autostradali come lenitivo al cancro ticinese; qualche piccola buona azione ferroviaria (ma il trasporto per ferrovia di autocarri o containers non è praticamente aumentato); l’utopistica apertura invernale del passo del San Gottardo... Esagero? Ma ditemi che cos’è cambiato politicamente e mentalmente: non si è forse per caso rafforzata la lobby degli autotrasportatori (sopratutto italiana) che ha subito trovato nella fantomatica ditta belga il capro espiatorio? non si è forse ancora impantanata la politica? Il sistema di produzione just in time richiede una rete di trasporti efficiente per realizzare quelle famose economie di scala. Di fatto ha trasformato i Tir in magazzini viaggianti. Secondo lei, questo ulteriore strozzatura nell’arco alpino contribuirà se non a cambiare, almeno a rivedere il sistema di produzione? È significativo come questa espressione ormai mitica (just in time) un tempo era associata ad altre espressioni altrettanto mitiche: «lean production» (produzione svelta) e «five zero» (traduciamo: zero difetti, zero tempi d’attesa, zero panne, zero stock, zero carta bollata). Quindi, è vero, è una filosofia, un sistema di produzione, una mentalità economica che si sono imposti. Si è insomma rovesciata la logica della produzione: si risale dal mercato, dalla sua richiesta, alla produzione, nel modo più rapido possibile. Per realizzare economie di scala, è pure vero; cioè, nella corsa alla massima competitività e al massimo profitto, bisogna ridurre continuamente il costo unitario del prodotto. Eliminando quelli che si ritengono i «costi parassitari». Direi sopratutto due: 1) i costi del lavoro (e quindi smagrimento, licenziamenti, deregolamentazione, sfruttamento massimo della manodopera, flessibilità, precarietà, ricorso sistematico alle ore straordinarie per evitare assunzioni, contrapposizioni tra gli stessi lavoratori, contratti a tempo, just in time anch’essi, attacco o sottrazione agli oneri sociali), 2) gli stocks, cioè in pratica le scorte, l’immagazzinamento della produzione, le superfici del magazzini, il capitale morto. Applichiamo questi principi ai trasporti e arriveremo subito a due fatti che constatiamo giornalmente e che sono innegabilmente la causa dei disastri e di una situazione divenuta catastrofica: massimo sfruttamento degli uomini e dei mezzi; la strada che diventa un immenso magazzino circolante. Anche qui, si esternalizzano i costi, si butta cioè semplicemente buona parte dei costi sulla comunità, sulle finanze pubbliche. Il traffico stradale aumenterà Non credo che la situazione catastrofica che si è creata (al di là della tragica vicenda del San Gottardo o delle altre numerose antecedenti, dal Monte Bianco via via discendendo) modificherà il sistema economico imperante se non muteranno in maniera radicale, contemporaneamente, due agenti fondamentali: la politica, con indirizzi precisi e rigorosi, senza cedimenti e compromessi; il consumatore, riconquistando la razionalità perduta, ricuperando il suo diritto di scelta, ribellandosi alla pubblicità, anteponendo la qualità di vita sua e dei suoi figli agli inganni dell’economia. Lo so che è alquanto utopistico, sopratutto quando si sente il «ministro europeo» dei trasporti, signora Loyola de Palacio, sostenere che il traffico stradale in Europa aumenterà nei prossimi trent’anni ancora del quaranta per cento e che per questo motivo dovremo affidarci alla tecnica, alla supertecnica dei controlli satellitari. Quindi, mettendo questa volta in orbita non solo i costi dell’economia ma anche quelli umani, della salute, della qualità di vita: bella soluzione e bella prospettiva! D’altronde non dimentichiamoci che noi svizzeri in fatto di trasporti e di ambiente abbiamo dovuto fare un notevole passo indietro (vedi le 40 tonnellate!) per carpire qualche vantaggio economico dall’Unione europea e ci troviamo di fatto soggiogati da un’Italia dominata dalla potenza della Fiat e dalla lobby degli autotrasportatori, l’esempio peggiore di politica dei trasporti in Europa. Tassare il traffico pesante per disincentivarlo è sacrosanto. Si corre il rischio di monetizzare tutto, anche l’ambiente e di dare un prezzo a ciò che per definizione è inalienabile e si giustifica, dal punto di vista economico, chi inquina senza scoraggiarlo effettivamente. Cosa ne pensa? Credo innanzitutto alla verità dei costi. L’economia, sempre ma sopratutto quella attuale, conosce il prezzo di tutto e il valore di niente (il valore dell’ambiente, della qualità di vita, dello stato di salute non rientrano nel calcolo del prodotto interno lordo che è poi l’indice della ricchezza prodotta in un anno nel paese). Costringiamola perlomeno con la sua stessa logica a conoscere e a pagare i costi che genera alla comunità, all’ambiente, alla salute dei cittadini (cento persone all’anno muoiono nel Ticino a causa dell’inquinamento atmosferico!), con il deprezzamento di altri valori economici (turismo, paesaggio, tranquillità), l’utilizzazione di corridoi di traffico lungo tutta la Svizzera. Le tariffe che si propongono attualmente, risultato di continui cedimenti nei confronti degli autotrasportatori e dell’Europa, non rispettano la verità dei costi . È non solo un non senso economico ma anche un inganno economico. Dev’essere poi politicamente proponibile e sostenibile un costo che scoraggi la scelta del trasporto gommato e favorisca quella del trasporto ferroviario, altrimenti non vedo perché si sostenga quest’ultima alternativa e si costruisca Alptransit. È una sorta di sanzione legittimata dalla ricerca del benessere comune. Quando si sostengono queste scelte, si agita però subito lo spettro terribile dell’aumento dei prezzi al consumatore, fatto divenuto assolutamente intollerabile in un epoca in cui l’economia si affanna a tutto campo per continuare a proporre prezzi e tariffe ribassati, senza tuttavia tener conto degli effetti collaterali, degli inganni venduti come efficacia manageriale e trasparenza, degli enormi costi sociali addossati sempre alla comunità (Swissair). Ora, l’opera d’informazione e di resistenza del consumatore è immensa ma va affrontata e perseguita. Bisogna fargli capire che il prezzo o la tariffa ridotti rimangono ingannevoli perché non c’è mai «verità del costo», non entrano mai in quei prezzi e in quelle tariffe, proposti come successi economici, gli «altri costi» da pagare in termini di costi sociali, politici, ambientali, di salute, di qualità di vita, di insicurezza, di incidenti mortali, di appiattimento culturale ecc. Oggi è facilmente calcolabile che in un prodotto venduto entra un buon quindici per cento di spesa pubblicitaria per accrescerne la domanda (è già una tassa autopromotrice che paghiamo inconsapevolmente come consumatori) e non entra un altrettanto buon quindici per cento di costi provocati dalla produzione di quel bene, non coperti dalla normale funzione delle imposte prelevate e riversati integralmente sulla comunità.

Pubblicato il 

09.11.01

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