Ma lo scrittore non ha Patria

“Lo scrittore e il suo Paese” è il titolo di un convegno che si è tenuto lo scorso autunno alla Biblioteca cantonale di Bellinzona. In quell’occasione quattro autori svizzeri in rappresentanza delle quattro aree linguistiche del Paese (Theo Candinas, Hugo Lötscher, Fabio Pusterla e Sylviane Roche) erano stati invitati a riflettere sul rapporto esistente fra lo scrittore e la sua regione linguistico-culturale, le altre regioni e il Paese intero. Di particolare interesse non solo in ottica strettamente letteraria è stato l’intervento di Pusterla, di cui di seguito proponiamo ampi stralci per gentile concessione della Biblioteca cantonale di Bellinzona e dell’Autore. I testi completi dei quattro relatori saranno prossimamente pubblicati dalla Biblioteca stessa. Non c’è nulla di male, naturalmente, nell’idea di proporre ad alcuni scrittori di riflettere, appunto in quanto scrittori, sul “proprio paese” cioè sul rapporto che si può stabilire tra scrittura e “Paese”. (…) Del resto, per apprezzare l’idea e l’intenzione, basterebbe rovesciare il discorso: cosa accadrebbe ad una scrittura priva di qualsiasi rapporto con il mondo? (…) Eppure, più mi ripeto queste cose più riaffiora in me una sensazione di fatica, di difficoltà e di disagio. (…) E comincio a capire che la difficoltà dell’argomento è più sottile di quanto ritenessi un tempo, e che l’avvertirei anche in una situazione completamente diversa da quella a cui sono ormai abituato: anche se fossi uno scrittore di Boston, o di Sassari, o di Niederbipp. Il problema, insomma, non sta soltanto nella particolare condizione dello scrittore svizzero o ticinese; ma nel tema stesso del ragionamento. Infatti, se prendiamo questo tema, cioè il titolo guida, bonariamente propositivo, “Lo scrittore e il suo paese”, e lo trasformiamo in una domanda, otteniamo un interrogativo che può dare qualche vertigine: “qual è il paese dello scrittore?” (…) Se uno scrive in italiano, e comincia a cercare risposte nella tradizione italiana, il primo nome che gli viene incontro è naturalmente, quello di Dante. E il paese di Dante è Firenze, come sappiamo tutti: Firenze così amata e così odiata, Firenze sempre presente nella Commedia. Dunque, se l’incontro di oggi si fosse svolto settecento anni fa a Firenze, l’ancor giovane Dante Alighieri avrebbe parlato del suo rapporto con Firenze? È difficile crederlo. Prima di tutto perché Dante non sarebbe stato invitato, essendo in esilio. Secondariamente perché Firenze non avrebbe avuto nessuna intenzione di sapere fino in fondo cosa Dante pensasse di lei: esattamente come, seicentocinquant’anni più tardi, nel 1986, la buona società Afrikaner radunata in un’elegante sala di Pretoria non avrebbe avuto nessuna voglia di sentire le sferzanti parole dall’accento davvero dantesco con cui uno scrittore come Breyten Breytenbach (che aveva conosciuto la prigione, e l’esilio) accoglieva la consegna di un premio letterario: «Ancora un po’ di torpore, un po’ di sonno, ancora un ultimo rapido voltafaccia prima che il gallo canti, ancora un’abile formula ipocrita, un ennesimo tentativo di calmare la bestiaccia, ancora un po’ dí cacca nei pantaloni, e poi ancora qualche eufemismo sull’oppressione, e ancora un po’ di violenza per la maggior gloria della Stato, di un cristianesimo distorto e di un Dio manipolato, e il paese sarà pronto per i vermi. E se quello che dico non vi strazia il cuore, significa solo che non state ascoltando». (1) Infine, e soprattutto, perché la Firenze di cui Dante parla con tanto ardore non è la Firenze reale, ma quella da cui lui è stato escluso. Il paese che non c’è, il paese inesistente, il paese vietato. E ciononostante, quello che prima di tutto immaginiamo pensando alla Firenze dell’epoca dantesca proviene appunto dai versi della Commedia, cioè dall’opera di uno scrittore che parlava del paese che l’aveva scacciato, e che sopravviveva soltanto nella sua memoria. (…) Il grande esempio di Dante suggerisce allora due cose: che tra la scrittore e il Paese esiste un rapporto conflittuale e una distanza; e che, nonostante o piuttosto grazie a questa distanza, lo scrittore può rivelare davvero il volto segreto del Paese, ma è più probabile che lo faccia ad uso e consumo dei posteri. Il conflitto e la distanza non devono, si capisce, apparire sempre in modo così drammatico. Prendiamo Leopardi: nessun esilio, in questo caso, semmai un domicilio coatto, imposto dalla famiglia. Eppure Leopardi, grazie al quale ci pare di conoscere Recanati assai più profondamente di quanto una gita nelle Marche ci consentirebbe di fare, parla tutto sommato ben poco del natio borgo selvaggio, e lo fa con un intento che non è certo realistico. Leopardi vuole fuggire da Recanati; ma quando finalmente ci riesce, avverte spesso il bisogno di farvi ritorno; odia e ama questo luogo come Thomas Bernhard avrebbe amato e odiato Vienna e l’Austria. Eppure, se oggi andiamo davvero a Recanati, (…) avvertiamo l’insufficienza di questa realtà tangibile e museale, la sua insignificanza rispetto ai pochi versi allusivi e quasi stilizzati nei quali l’autore ci ha definitivamente consegnato la verità soggettiva e profonda di quel luogo. (…) Dante, Leopardi, Breytenbach, Bernhard… immagino già l’obiezione: sto scegliendo gli esempi che fanno comodo al mio discorso, estraendoli dal vasto, ma non unico, serbatoio, degli scrittori in dissidio con il proprio Paese. Prendiamo allora uno scrittore d’altro tipo; l’archetipo, si potrebbe pensare, di un’armonia, di una pietà comprensiva e arguta: quell’Alessandro Manzoni che non si allontana quasi mai da Brusuglio e da Milano, che dedica la propria vita al romanzo forse più fortemente stretto ad un Paese, la Lombardia, e ai suoi abitanti, dai più umili ai più ignobili. Non è forse questo un esempio che parla di un rapporto più diretto, più immediato, tra scrittore e Paese? Che invita ad un impegno più franco, ad un’adesione più generosa. Temo di no. Perché anche Manzoni si sente obbligato a dislocare nel tempo il paese di cui parlare; e se conosciamo perfettamente le ragioni culturali che l’hanno spinto ad ambientare il romanzo nel’600, se comprendiamo perfettamente il valore allusivo di tale ambientazione, grazie alla quale, come diceva Gadda, Manzoni parla alla nuora intendendo rivolgersi alla suocera, resta comunque la necessità di una distanza, e l’impossibilità di una coincidenza tra scrittura e realtà. Qual è, allora, il paese di uno scrittore? È sempre un paese segreto, lontano nel tempo o nello spazio o nel desiderio o nella speranza; è un paese che non corrisponde al Paese reale, ma che può illuminare quest’ultimo di luce riflessa. Facendo cadere la maschera delle apparenze, mettendo a nudo qualcosa di importante: qualcosa che esiste, ma non si vede facilmente; qualcosa che esisteva, ed è stato distrutto; qualcosa che ancora non esiste, ma di cui si possono scorgere le prime deboli tracce. Qualcosa, infine, che il Paese è restio a riconoscere, e che preferirebbe ignorare. Vorrei fare ancora due esempi, stavolta contemporanei e molto vicini a noi. Alcuni mesi or sono, al termine dello scorso anno scolastico, ho avuto modo di invitare a scuola cinque scrittori che gli studenti avevano letto e approfondito durante le lezioni. I primi due furono un narratore italiano, Francesco Permunian, il cui libro più recente si intitola Il paese delle ceneri, e Alberto Nessi, di cui gli studenti avevano soprattutto letto il romanzo di formazione Tutti discendono. Ambedue hanno sottolineato, ma con qualche significativa differenza, un aspetto essenziale della loro scrittura: il fatto cioè di aver tentato di testimoniare un passato del loro Paese, un passato non lontanissimo dal presente eppure rimosso, cancellato; e di averlo fatto partendo dalla propria esperienza concreta di quel passato, di quel mondo. Se la scrittura è memoria che si fissa sulla pagina, lo scrittore può dunque tentare di essere, tra le altre cose, la memoria di un paese. La differenza significativa a cui alludevo è però quasi più importante dell’analogia di intenzioni: Permunian, che ambienta la sua vicenda nel Polesine del dopoguerra, ritiene di poter solo dar voce a un Paese che non esiste più, che è stato devastato, colonizzato e letteralmente distrutto, proprio come, su un piano diverso, sono stati devastati e distrutti gli ideali della sua gioventù. Per questo Permunian, nel suo romanzo atroce e volutamente grottesco, parla di radici, ma di radici che sono state tagliate e bruciate; e, così facendo, allude a un presente dominato dall’oblio, dalla disensatezza, dallo smarrimento. (…) Alberto Nessi, al contrario, sente ancora la forza delle proprie radici; crede che quel Paese passato, umile e vivo, di cui parla volentieri, eserciti ancora un influsso benefico sul presente; certo, è minacciato, e assediato dal cemento reale e metaforico che strozza il paesaggio e le coscienze, ma non è ancora del tutto morto; e dargli forma narrativa o poetica significa allora difenderlo, aiutarlo ad esistere in noi, nonostante tutto. Nessi afferma così dei valori che possono opporsi, sia pure esilmente, all’arroganza del presente, alla sua ignoranza e alla sua crudeltà; Permunian, invece, testimonia una sconfitta definitiva e irrimediabile. Questi due diversi modi di intendere ed elaborare il passato e il senso dello scrivere poggeranno, si capisce, su differenti esperienze, differenti mondi, e forse anche differenti età. (…) Eppure, malgrado queste differenze, sia Nessi sia Permunian saprebbero certo rispondere senza troppe difficoltà alla domanda da cui è partito il ragionamento; perché ambedue, in quanto scrittori, riconoscono un proprio Paese, un paese dell’anima, come si diceva una volta. Potrei dire la stessa cosa di me? Ne dubito. Io credo di parlare, nelle cose che tento di scrivere, dal cuore di uno spaesamento; posso utilizzare nomi, luoghi, materiali che prendo dalla realtà quotidiana in cui vivo, lavoro, agisco; posso descrivere paesaggi e volti che amo; posso persino comporre dei testi che sembrano presentare una forma di impegno civile e politico, e che dunque si legano, o sembrano legarsi, a un presente concreto, storicamente e geograficamente definito. Eppure, tutto ciò non mi sembra saldarsi nell’immagine di un Paese, ma semmai suggerire lo sfaldamento di quella stessa immagine, l’impossibilità di esistenza del concetto di Paese. Se condivido con Permunian il senso tragico di una perdita, non posso però parlare di ciò che è stato perso, e che non mi pare di avere mai davvero conosciuto; se concordo con Nessi sull’importanza vitale di un radicamento del presente nel passato, non posso parlare con analogo ottimismo del valore della memoria, perché temo di appartenere al tempo della smemoria, della dimenticanza, e dall’interno di questo tempo prova a parlare la mia scrittura. Il non-paese in cui vivo e da cui parlo come scrittore mi sembra dunque la vera condizione esistenziale del presente, la nota di profondità che provo ad ascoltare quando ho la forza di abbandonare la superficie delle cose. Se tutto ciò non è, come mi auguro, soltanto una nevrosi individuale, ma riguarda una condizione collettiva, può darsi che la scrittura riesca a manifestare quel senso spettrale di disorientamento, di mancanza, che spesso avvertiamo in noi oggi, qualunque sia il paese reale in cui viviamo. Ma questo non spetta a me dirlo; io posso solo cercare di essere fedele alla verità della scrittura, a quella forma di verità che la scrittura deve perseguire ad ogni costo, e che mi conduce appunto nel luogo in cui gli individui sono soli con se stessi, privi di ordine e di garanzie, in balia delle forze. Gli individui, le vite individuali; che, quando si incontrano e si riconoscono, possono dar vita a qualcosa di nuovo, a un nuovo modo di stare insieme nel mondo e di guardare il mondo, o possono cancellarsi nell’immagine collettiva di una folla (così ho infatti intitolato il mio ultimo libro: Folla sommersa); non di un popolo. Orientare la propria scrittura in una simile direzione non vuole affatto dire estraniarsi dalla realtà del Paese; si tratta al contrario di spogliare il Paese delle sue immagini più tradizionali, che posseggono una caparbia forza inerziale, e che tendono a perpetuarsi anche quando sono ormai svuotate di reale significato. Ma appunto per questo non bisogna stupirsi del fatto che in generale il Paese non ami i suoi scrittori quando sono vivi, e tenda a dimenticarli quando sono morti; gli scrittori possono essere amati e ricordati, se hanno fortuna, dai loro lettori, che sono delle persone, delle individualità emotive e pensanti; non dal Paese, che di loro farebbe volentieri a meno, e che può al massimo fingere, se possiede un grado sufficiente di cultura e di buone maniere, di averli in grande considerazione. (1) Breyten Breytenbach, Poesie di un pendaglio da forca, a cura di Laura Betti e Giovanni Raboni, Quaderni Pier Paolo Pasolini, Roma, 1986, p. 108.

Pubblicato il

28.01.2005 04:30
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