È come un pugno nello stomaco. Dammene un altro. Grazie Renato. È così strana la sensazione provata dopo aver letto L’azienda totale (Edizioni Sensibili alle foglie, 2002), che subito hai voglia di leggere la continuazione del percorso di ricerca avviato da Renato Curcio pubblicato a fine 2003 con il titolo Il dominio flessibile (stesso editore, il cui sito internet è www.sensibiliallefoglie.it). La sua ricerca è un viaggio terrificante, le cui guide sono le lavoratrici ed i lavoratori stessi, all’interno dei grandi magazzini italiani. Curcio li ha ripetutamente incontrati per costruire con loro un vero e proprio cantiere di analisi, come lo definisce lui stesso. Le testimonianze si susseguono e si intrecciano ed illustrano ampiamente le condizioni di lavoro cui sono costretti lavoratrici e lavoratori: storie di diritti negati, di arbitrio padronale, di logiche aziendali perverse, di solidarietà spezzate o mai nate, di… sofferenza. Perché come dice Curcio «il lavoro, dalla parte delle donne e degli uomini che scambiano le loro attività con un salario, è anzitutto dolore e sofferenza». Leggendo i due libri si intuisce che il cantiere non è stato un semplice raccoglitore di testimonianze ma un vero e proprio laboratorio di esperienze teso a dare un senso al vissuto quotidiano. Alcuni potrebbero essere scioccati dalla scelta del ricercatore di accostare il mondo del grande commercio alle istituzioni totali come manicomi, eserciti e campi di concentramento nazisti. È possibile immaginare una Rinascente, una Esselunga, una Standa, ecc. come Auschwitz? La ricerca di Curcio dimostra ampiamente che l’accostamento non è azzardato, smascherando puntualmente e rigorosamente la logica totalizzante che determina la vita all’interno dell’azienda. Ne è esempio l’atteggiamento dei capi di fronte alla richiesta di beneficiare di una pausa pipì; dalla risposta negativa, alla dilazione, al silenzio: l’esercizio del potere si trasforma in vessazione e persecuzione. Dall’altra parte, lavoratrici e lavoratori sperimentano la forza dei dispositivi relazionali totalizzanti, che consentono «all’istituzione di assumere progressivamente il controllo sul comportamento del recluso ed infantilizzarlo». La ricerca di Curcio ti fa sentire orgoglioso di appartenere ad una categoria professionale, quella dei sociologi, capace di analizzare il mondo del lavoro decostruendone miti e retorica e ricostruendone le logiche. Alla fine delle due letture tuttavia, qualche dubbio rimane: è il vento neoliberista che veste il lavoro con i suoi dispositivi totalizzanti o è il lavoro salariato stesso che per sua natura è totalizzante? Non sarà questo nostro impiego come una bestia selvatica, che dà l’impressione di essere domata ma in realtà non aspetta altro che l’occasione di divorarti? E non è che magari vale la pena di riesumare ed attualizzare il problema della proprietà dei mezzi di produzione?

Pubblicato il 

02.04.04

Edizione cartacea

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