Brasile

L’annullamento dei quattro processi e delle due condanne, con annessa restituzione dei diritti politici, deciso l’8 marzo dal giudice del Supremo Tribunal Federal Edson Fachin, non solo ha rimesso in campo l’ex presidente Lula da Silva, ma ha dato il segnale che la campagna elettorale per le presidenziali del 2022 è cominciata.

Sarà una campagna elettorale drammatica, di fuoco – nel pieno della strage deliberatamente provocata dalla criminale gestione negazionista della pandemia (2.000 morti al giorno, 270mila morti finora) e della peggior crisi economica in 24 anni –, perché secondo i sondaggi Lula è l’unico, al momento, in grado di battere la ricandidatura di Jair Bolsonaro, l’ultrà di estrema destra che grazie a quei processi montati ad hoc dal supergiudice Sergio Moro nella sua “Operação Lava Jato” (Autolavaggio), nel 2018 riuscì a sbarazzarsi di un Lula in prigione, ma anche allora in testa nei sondaggi, e ad arrivare alla presidenza.
 

Non è improbabile che Bolsonaro, in caso di sconfitta, segua le orme del suo idolo caduto, Donald Trump, e chiami i suoi all’assalto fisico. Lui stesso, cui nonostante tutto resta un consistente 25-30% di appoggio, ha più volte incitato la piazza a muoversi per chiudere il Congresso e la Corte suprema. La piazza e i militari, di cui l’ex capitano è creatura e ostaggio.

Per i militari fa presto. La metà del suo governo è composta da generali, ci sono 3.000 militari a occupare cariche politiche, più di quanti ce ne fossero nei 21 anni di dittatura dal ’64 all’85. Nell’aprile 2018, prima della decisione della Corte suprema sulla scarcerazione di Lula, il generale Eduardo Villas Boas, allora capo delle forze armate, piazzò due tweet intimidatori per ricordare agli 11 giudici di fare molta attenzione. Il 9 marzo scorso, un giorno dopo la sentenza favorevole a Lula, il generale della riserva Eduardo Rocha Paiva ha postato sul sito del Club Militar un testo in cui attacca il giudice Fachin e ammonisce che «il punto di rottura si approssima».
 
Da qui all’ottobre 2022 può succedere di tutto. La sentenza non ha scagionato Lula dalle accuse di corruzione ma ha solo stabilito una ovvietà: che il giudice Moro e i suoi colleghi di Curitiba non avevano la giurisdizione del caso, che spettava di diritto alla magistratura federale di Brasilia, e che tutto il castello delle accuse aveva come obiettivo quello di sbarrare la strada a Lula.
 

L’operazione che portò all’impeachment di Dilma nel 2016 fu un “golpe blando” parlamentare, l’operazione Lava Jato nel 2018 fu una sorta di golpe giudiziario affidata a Moro dai poteri forti di sempre, dalla grande stampa, dalla rabbia popolare per la crisi economica, dalle mefitiche sette pentecostali, dai militari.

Ora che Lula è libero bisogna vedere se riuscirà di nuovo a connettersi con l’anima profonda delle masse popolari con cui il Partido dos Trabalhadores aveva perso il contatto. La grande stampa, che aveva tirato la volata a Bolsonaro ma che di fronte al suo spaventoso tasso di incapacità, criminalità e corruzione («basta piagnucolare», «cose da froci»), di lui non ne può più, denuncia però «l’errore fatale» del giudice Fachin, riscopre i pericoli della «polarizzazione», dei «due populismi» contrapposti, ribattezzati ora “bolsolulismo” per coprire “l’antilulismo” di sempre.
 

Lo scenario del Brasile rimanda a quelli del 2016 e del 2018, Ma è anche peggio. Perché in più c’è il virus che fa del Brasile bolsonarista lo scandaloso “laboratorio naturale” della pandemia.
Trump è sopravvissuto a due impeachment, contro Bolsonaro sono già una settantina le denunce presentate in Congresso – “incapacità mentale”, crimini contro l’umanità, genocidio – anche se è improbabile vadano avanti.
Riuscirà, basterà Lula a dominare uno scenario simile?

Pubblicato il 

17.03.21
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