Di origini armene, nato 54 anni fa e cresciuto in un quartiere popolare di Marsiglia in una famiglia proletaria, Robert Guédiguian è uno dei registi più originali, coerenti e fuori sistema del cinema contemporaneo. All'attenzione di un vasto pubblico s'è imposto tre anni fa con "Le promeneur du Champ de Mars", ma sono almeno vent'anni che i cinefili lo seguono con attenzione nel suo cinema impegnato, quasi sempre ambientato in quello stesso quartiere che lo vide crescere, l'Estaque, e con gli stessi attori e la stessa troupe. Ma i meriti maggiori Guédiguian li ha come produttore. È lui la vera anima della casa di produzione Agat Films, un collettivo nato una quindicina d'anni fa che funziona secondo ideali realmente partecipativi e al quale si devono tanti eccellenti film (fra cui "Sous les toits de Paris" di Hiner Saleem, che è valso a Michel Piccoli il premio per la miglior interpretazione maschile a Locarno 2007). Della stretta relazione fra impegno politico e attività creativa Guédiguian ci ha parlato in questa intervista raccolta un anno e mezzo fa.

Robert Guédiguian, sulla base di quale motivazione è nata Agat Films?
Dal desiderio di rimanere indipendenti riunendo le forze in una sorta di cooperativa di artigiani. Come produttori ci eravamo resi conto che rimanendo isolati non avremmo mai potuto preservare la nostra indipendenza. La costituzione di una nostra organizzazione ci era sembrata preferibile alla semplice adesione ad un gruppo più forte, che fosse una banca, una casa produttrice esistente o una televisione. Una quindicina di anni fa questa idea era piuttosto fuori moda. Oggi siamo una compagnia di produzione veramente indipendente, non abbiamo partner in senso capitalista di alcun tipo e condividiamo tutto, dagli interessi politici ai nostri salari, che sono uguali in tutte le funzioni. E così riusciamo più o meno a fare quel che vogliamo.
Il bilancio è dunque positivo?
Sì, molto. Abbiamo progetti che funzionano meglio di altri, ma proprio i progetti che promettono un certo successo sono anche quelli che ci permettono di strappare aiuti e finanziamenti per quelli più fragili, che altrimenti ci sarebbe molto difficile produrre. Un buon volume di produzione (oggi in catalogo abbiamo oltre 200 film) ci permette anche di avere dei rapporti più forti con i partner industriali e tecnici. Lavorando cerchiamo anche di mescolare molto i generi: facciamo non solo film di finzione, ma anche molti documentari, progetti televisivi, spettacoli teatrali e di danza, ecc… Questo ci permette anche di rimescolare le squadre di lavoro, di far incontrare in continuazione chi lavora con noi su progetti anche diversi. Da noi si ha l'impressione di un'atmosfera di festa, di euforia.
Agat è un'isola felice?
È un isolotto in cui si respira in maniera diversa che altrove.
Alla base del vostro progetto c'è anche una comune visione politica.
Certamente. Questa comune visione non è stretta. Diciamo che da noi tutti sono liberi di votare a sinistra… Fra di noi c'è un'intesa politica nel senso più ampio del termine: siamo tutti di sinistra anche se non votiamo allo stesso modo. E ne discutiamo molto fra di noi. E tutti consideriamo il cinema e la televisione uno spazio di libertà, di pedagogia, e anche, ma non solo, di divertimento. E abbiamo anche un forte senso della responsabilità nei confronti del nostro lavoro e di chi ne fruisce. Oggi mi identifico così tanto con Agat che Agat oggi è un po' il mio partito.
Politicamente oggi dove si situa?
Ho lasciato il Partito comunista francese nel 1980. E in un certo senso ad Agat ho finito col ricreare quel che mi piaceva del partito e in un certo senso mi mancava, compresa la seduta settimanale, che si trasforma in lunghe chiacchierate sulle sceneggiature, sulle riprese, sul montaggio, ma anche sulla politica, sull'amicizia, sui viaggi.
Lei cerca di vivere nel collettivo la sua idea di solidarietà?
Direi di sì. È così che ho sempre vissuto fin dalla mia nascita, in un ambiente totalmente comunista. E quindi ho fatto in modo di creare attorno a me delle strutture che mi soddisfano. Io non sono capace di vivere da solo.
Con Agat avete risolto brillantemente il problema dell'indipendenza della produzione. Ma il problema per il cinema indipendente è l'accesso al mercato, cioè la distribuzione. Che fare?
Intanto ci battiamo tutti nelle diverse strutture a cui accediamo per migliorare la situazione. Poi curiamo il più possibile le nostre relazioni con i distributori e gli esercenti. La risposta però può venire solo dalle istituzioni pubbliche. Se non c'è una volontà forte dei poteri pubblici di preservare dei mercati nazionali forti e delle identità nazionali nei mercati cinematografici e nelle televisioni, allora è impossibile vincere questa battaglia. Alla televisione in Francia qualcosa è stato ottenuto, perché ci sono dei sistemi che obbligano a produrre in Francia e a rispettare delle quote minime di diffusione di produzioni francesi ed europee. Sono due chiavistelli che obbligano di fatto la televisione francese a partecipare alle nostre produzioni. Il problema è sul fronte del cinema. Lì il mercato è più libero. Io ritengo che si debba imporre una quota massima all'importazione di film dall'estero. È una dichiarazione di guerra a Hollywood. Ma è necessaria, perché oggi Hollywood ha una chiara strategia di invasione del mercato. Il cinema hollywoodiano si impone come il modello standard che esclude tutti gli altri film. Con conseguenze anche gravi sull'immaginario collettivo. Oggi al cinema un poliziotto serio può essere soltanto un poliziotto americano. Se infiliamo una divisa francese, svizzera o tedesca ad un poliziotto esso diventa invece subito ridicolo. Hollywood condiziona il modo in cui guardiamo e leggiamo tutti i film, al cinema (e di conseguenza non solo) finiamo col pensare in americano. Dobbiamo difenderci da questo. In termini economici, difendersi significa introdurre delle quote. Per la distribuzione non vedo altre soluzioni.
Lei lavora sempre in collettivo. Come funziona concretamente?
Il cinema è sempre lavoro collettivo, e compito del regista è dare la possibilità a tutti, tecnici e attori, di esprimere il meglio di sé. Questo comporta la necessità di dare a tutti la possibilità di parlare, di proporre. Il regista non è quello che sa tutto, non è il Dio onniscente: deve anche saper rubare le buone idee agli altri. Così anche ad Agat tutti devono poter fare le loro proposte. Da quando Agat c'è non abbiamo però mai dovuto votare: ogni decisione è stata presa sulla base del consenso comune.
Un metodo che però può anche richiedere processi decisionali lunghi e soluzioni di compromesso non sempre soddisfacenti.
Non credo che ad Agat le cose stiano così. E questo perché ci siamo imposti una regola di fondo: non facciamo dei film per sbancare il botteghino, ma dei film che hanno l'ambizione di durare nel tempo. Ne siamo tutti coscienti: e quando c'è un rischio da prendere, ce lo prendiamo tutti assieme dopo un'attenta analisi e una lunga discussione. Corriamo dunque solo quei rischi che non compromettono a lunga scadenza la stabilità del progetto, anche se prendiamo in considerazione la possibilità di difficoltà temporanee per tutta la struttura. Ci vuole dunque una condivisione collettiva di ogni singolo progetto e dei rischi che può comportare.
Lei dice di voler fare del cinema popolare per raggiungere quegli ambienti sociali dai quali lei stesso proviene. Un'impresa non facile…
È per questo che dico che ho la volontà di fare del cinema popolare. E già questo non è male. Quando si fa dei film che hanno l'ambizione di muovere qualcosa a livello sociale ci si deve porre il problema di quante persone andranno poi davvero al cinema. Ma nel contempo non ci si deve permettere nessuna concessione sui temi, sui contenuti, sulle modalità e le forme narrative. È un'impresa difficile. Mi sforzo di risolvere il problema, e credo che qualche volta ho anche trovato delle buone soluzioni. Per esempio l'idea di riprendere la forma del racconto che ho usato in tre miei film deriva dalla precisa intenzione di lavorare sulle forme popolari quali la commedia dell'arte, il fumetto, il fotoromanzo, la commedia musicale ecc. L'obiettivo era rendere ludici e accessibili dei film complessi sul piano tematico e narrativo, dichiarandolo in partenza. Una sorta di contratto con il pubblico che il pubblico apprezza, rimanendo fedele al mio cinema.
Lei oggi si definisce ancora comunista e rivoluzionario?
Comunista sì, nel senso dell'idea della messa in comune dei mezzi di produzione e delle ricchezze. Del resto è quel che vivo ad Agat, nel cinema che faccio e nella vita di tutti i giorni. Penso che il mondo è ingiusto e che coloro che hanno avuto più fortuna devono partecipare alla correzione delle ingiustizie. Rivoluzionario direi di no perché una grande alternativa non c'è più. Ci sono però delle piccole alternative nella vita quotidiana di ognuno, e quindi ognuno può fare le sue piccole rivoluzioni nella vita di ogni giorno. In questo senso allora sono rivoluzionario: ma non è più un grande sogno, è una fatica quotidiana, un rimettersi in discussione ogni giorno, un lavoro continuo sia nella vita privata e famigliare che in quella pubblica, professionale e sociale.
Trent'anni fa in molti negli ambienti del cinema e della cultura mi avrebbero dato le sue stesse risposte. Oggi non si sente un
po' solo, isolato?

Sì, viviamo un'epoca poco propensa all'impegno, gli intellettuali tendono a relativizzare i problemi e manca quindi uno spazio per la radicalità. Per esempio io voglio che il salario minimo garantito in Francia aumenti almeno del 50 per cento, lo si può certamente fare e non voglio sentirmi dire che non è possibile. Eppure tutti gli intellettuali, i filosofi, i letterati e i cineasti, pur non capendo nulla di economia, diranno che non si può, che questo comporterà la rovina dell'economia. E lo diranno perché anche nelle loro teste il discorso neoliberale ha preso il sopravvento. In realtà una proposta come questa non rovinerà nessuno. Basterà distribuire meno dividendi e il gioco è fatto. Quando dico queste cose mi si prende per un pazzo marsigliese: grido nel silenzio di tutti gli altri, ma almeno così non assomiglio a tutti gli altri.


Il film su Mitterrand per elaborare la delusione

Robert Guédiguian, lei quale regista è noto al grande pubblico in particolare per "Le promeneur du Champ de Mars", il film del 2005 su François Mitterrand che ha due grandi protagonisti, l'ex presidente francese e la morte. Il tema della morte la interessa molto nel suo cinema, perché? È il problema irrisolto di ogni ateo?
Forse sì. È vero che chi ha una fede solida e grande è molto più tranquillo in rapporto alla morte. Tutto questo mi ha colpito molto nella persona di Mitterrand fin dalla sua gioventù, con il suo lato spavaldo, quand'era partigiano, di sfida aperta alla morte. E alla fine m'è piaciuto mostrarlo sereno di fronte al compiersi del suo destino. D'altro lato la morte compare spesso nei miei film, fin dall'inizio. Forse è la mia eredità mediterranea, quella che ha prodotto le grandi tragedie. E la morte è anche il presupposto della vita: una storia la si può raccontare solo dal momento che è realmente finita, quando si può farne il bilancio. La morte ha dunque anche una grossa importanza nell'economia della narrazione drammatica, nella costruzione di una fiction.
Il film su Mitterrand è stato un modo anche per elaborare una delusione, sia personale che collettiva, dopo le speranze generate dalla sua elezione?
Credo di sì. Nel film ci ho tenuto a separare i due piani. Ho voluto fare un film più astratto che biografico per cercare di capire che cosa Mitterrand ha incarnato per me, che lo volesse o no. Il 10 maggio 1981 fu una data di grande rilevanza: per la prima volta in un paese occidentale vince il socialismo, ma già incombe il tracollo. Credo che nel trionfo si avesse comunque tutti ben presente la consapevolezza che il socialismo era avviato al tramonto, anche se nessuno era in grado di prevedere che di lì ad 8 anni sarebbe crollato il muro di Berlino. Già nell'81 sapevamo però che la normalizzazione conseguente all'ascesa al potere avrebbe spento la spinta propulsiva del socialismo. Ma credo che l'ideale di uguaglianza risorgerà, perché è un ideale che fa parte profondamente della storia dell'umanità. È di temi ispirati dalla vicenda di Mitterrand quali la fragilità e la relatività del potere, sia in rapporto allo Stato che a sé stessi, che ho voluto parlare in maniera astratta, senza ricostruire una biografia.

Pubblicato il 

11.01.08

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