Il primo giorno di questo 2003 ha decretato l’addio a un’altra tessera importante del grande puzzle cantautorale italiano. Giorgio Gaber se n’è andato, silenziosamente, in punta di piedi, quasi come il suo “Signor G”, timoroso di dare fastidio, di disturbare una quotidianità già troppo intrisa di problemi e cose da sbrigare. Eppure di questa quotidianità malata di nevrosi e conformismo lui era stato per molti anni il cantore più attento e spietato, l’implacabile censore di moralisti e benpensanti sempre pronti a puntare l’indice verso chi è più sfortunato e a giustificare se stessi in nome di una conservazione di valori che, poi, spesso, non è altro che ipocrisia.
Era nato nel ’39 a Milano da una famiglia di origini giuliane (il suo vero nome era Gaberscik) che gli aveva permesso di studiare e diplomarsi in ragioneria. Colpito, nella prima adolescenza, dalla poliomielite che gli lascia qualche problema di coordinazione alla mano sinistra, recupera l’uso perfetto dell’arto proprio grazie alla chitarra che gli viene consigliata come mezzo di rieducazione. La disgrazia di gioventù diventa presto la sua fortuna di uomo adulto; la sensibilità maturata e quel dito pollice allungatosi, a causa della malattia, un po’ più del normale, che gli permette di raggiungere accordi altrimenti difficili da cogliere, lo promuovono musicista dotato e rigoroso.
Il suo primo amore è il jazz che, uscito finalmente dalla clandestinità a cui è stato costretto dal fascismo, comincia a diffondersi anche qui da noi, ma gli anni Cinquanta vengono ben presto travolti da un’altra valanga che arriva da oltre oceano: il rock’n’roll, una nuovo modo di concepire la musica, la società e perfino la vita. Gaber non si tira indietro, è tra i primi a sposarne la causa e a proporla con un gruppo d’eccezione di cui fanno anche parte i giovanissimi Celentano e Jannacci. Con quest’ultimo continuerà poi l’avventura formando i Jaga Brothers, un duo che anticipa di almeno vent’anni i Blues Brothers sia per quel che riguarda il look che le movenze sul palco.
Gaber però è un artista che ha in sé una forte vena intimista, un amore che esplode presto, grazie anche alla possibilità di accedere alla Ricordi, il tempio assoluto dell’esordiente cantautorato italiano dei primi anni Sessanta, il luogo dove approdano i più importanti artisti influenzati dalla canzone d’autore francese. In questo periodo nascono alcune delle più belle canzoni sentimentali di Giorgio, pezzi delicati come Non arrossire e Porta Romana che si alternano ben presto ad altri con una più marcata componente sociale, brani come “La ballata del Cerutti”, splendido quadretto del bullo di periferia, un po’ sbruffone e un po’ balordo che passa la sua giornata al bar in attesa del furto facile, e “Barbera e Champagne” dialogo improbabile tra due delusi d’amore che accomunano le loro pene nonostante la diversa classe sociale di provenienza. Il bar è spesso il luogo privilegiato da cui scaturiscono i personaggi gaberiani, non il locale notturno o la discoteca, proprio il bar, meglio se un po’ decentrato, dove ci sono ancora i tavolini con i pensionati che giocano a carte e un immancabile spazio riservato al manto verde del biliardo. È qui che nascono “Trani a gogo’” e “Il Riccardo bozzetti di periferia” caratterizzati da introversioni e bizzarrie, storie intrise di ironia capaci di cogliere il particolare, sempre con un sottofondo di simpatia, che le rende palesemente aliene da cattiveria e pregiudizio.
La svolta ulteriore della sua carriera arriva alla fine degli anni Sessanta, quando stanco delle apparizioni televisive che lo costringono in spazi sempre più desolanti, Gaber decide di inventarsi un nuovo repertorio, la canzone teatro, come lui stesso la definirà. L’occasione si presenta con il Piccolo Teatro e l’allora direttore Paolo Grassi che decide di decentrare in periferia gli spettacoli e puntare proprio sulla nuova vena di Giorgio Gaber. L’esordio arriva nel 1970 con lo spettacolo “Il Signor G”, un monologo di grande intensità, inframezzato da canzoni, che conquisterà immediatamente per la sua immediatezza e la spietata ironia del suo personaggio. Per tutti gli anni Settanta Gaber presenta quasi annualmente i suoi spettacoli, piccoli gioielli come “Fare finta di essere sani” (1973), “Anche per oggi non si vola” (1974), “Libertà obbligatoria” (1976), “Polli di allevamento” (1978) e molti altri ancora che rimarranno nell’immaginario collettivo di più di una generazione per la capacità di elaborare speranze, delusioni e drammi relativi a una decade che passa tra terrorismo, anni di piombo e una pesante restaurazione destinata a cancellare via via conquiste civili e politiche ottenute con dure lotte.
Gaber tira di fioretto, altre volte pesta duro; dalla sua privilegiata posizione di intellettuale spara a raffica contro chi sta palesemente sostituendo la dialettica ideologica con quella di potere, ma non risparmia neppure fulmini e saette a chi nella sinistra rimane arroccato su posizioni miopi, o a coloro che le imprimono per convenienza politica svolte spregiudicate. La sua critica avvolgente e spietata a tutto e a tutti finisce però per dare fastidio anche a molti che stanno dalla sua stessa parte: il non prendere posizioni precise, al di là del definirsi genericamente di sinistra, non piace e Gaber viene presto marchiato come inconcludente “cane sciolto” dalle frange sinistrorse più intransigenti. Col passare del tempo Gaber sembra dare sempre più importanza alle singole persone che non alle organizzazioni politiche e così si esprime con simpatia nei confronti dei ciellini incontrati durante un loro meeting e vota, nelle ultime elezioni amministrative, la moglie Ombretta Colli di Forza Italia, sostenendo che si tratta di una brava persona. Non privo di contraddizioni compare per l’ultima volta in televisione quasi due anni fa, nella trasmissione di Celentano, dove presenta il suo ultimo lavoro dal titolo inequivocabile: “La mia generazione ha perso”.
Il prossimo 25 gennaio, data ironicamente preannuciata anche per l’uscita del suo nuovo disco: “Io non mi sento italiano”, Gaber avrebbe compiuto 64 anni; con lui scompare un altro pezzo di musica impegnata e intelligente del panorama artistico italiano. |