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Locarnesi soddisfatti, ma stavolta... attenti |
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Per celebrare i centocinquant'anni dalla nascita del Canton Ticino il Gran Consiglio votò il 9 marzo 1953 l'istituzione di tre musei cantonali: il museo d'arte a Lugano, il museo storico a Bellinzona ed il museo archeologico a Locarno. A Lugano, con grande ritardo, qualcosa si fece, ma l'esito non fu dei più felici a causa soprattutto dell'inadeguatezza dei locali. A Bellinzona è stato restaurato Castel Grande ma al posto del museo ci sono un ristorante, alcune salette, un bell'ascensore ed un bel cortile. A Locarno niente. Sono le solite storie alla ticinese della differenza tra il dire e il fare, dove tra l'uno e l'altro c'è di mezzo un mare di retorica e di intrallazzi. Vediamo in breve la storia di Locarno. Nel 1898, dopo un'avventurosa spedizione scientifica nelle Americhe, il facoltoso e colto valmaggese Emilio Balli (1855-1934) fonda con Alfredo Pioda e Giorgio Simona la Società del museo, destinato ad accogliere le sue cospicue raccolte d'oggetti romani, l'erbario Franzoni e la preziosa collezione di minerali di Luigi Lavizzari. Nel 1928 il museo viene addirittura ospitato nel Castello visconteo. Ma poi seguono anni bui. Le collezioni saranno smembrate. Rimarranno in parte a Locarno i fondi Balli, ma le raccolte Franzoni, Daldini e Lavizzari, dopo anni d'abbandono, finiranno a Lugano. Poi più nulla fino al 1954. In quell'anno Virgilio Gilardoni organizza la grande mostra dell'Arte e delle tradizioni popolari del Ticino, preludio, si dice, ad un futuro museo d'importanza cantonale. Nell'introduzione al catalogo il Gilardoni scriveva: «Le manifestazioni più valide dell'arte popolare delle valli ticinesi e delle finitime valli lombarde si riallacciano in modo spesso così vivo e immediato ai documenti artistici delle civiltà preistoriche del bronzo e del ferro delle stazioni archeologiche prealpine da suggerire allo studioso che un unico filone culturale abbia continuato a rigermogliare per oltre tre millenni negli strati più profondi delle nostre popolazioni rustiche». E nelle sue conversazioni spesso aggiungeva che l'Antelami, il Maderno, il Borromini andavano visitati e studiati a Parma e a Roma, ma non a Lanzo d'Intelvi o a Capolago o a Bissone, dove al massimo si trovava (ma era stato rubato anche quello) l'atto di battesimo. Per cui le ricchezze principali visibili in loco delle valli ticinesi e lombarde erano l'architettura rustica, l'arte popolare, le loro radici preistoriche, romane, medioevali. Forse pochi ricordano come finirono nel 1966 le imprese del Gilardoni: dapprima trascinati lui, Plinio Martini ed il sottoscritto in un ingiusto processo bellinzonese per aver denunciato (un po' ingenuamente) la scomparsa di numerosi materiali iconografici della città di Bellinzona, furono poi esonerati solennemente dal Gran Consiglio, siccome "intellettuali disobbedienti" da tutta l'impresa dei musei dell'arte popolare. E né a Locarno, né a Bellinzona non se ne parlò più. Ora ecco il proposito di realizzare un museo del territorio a Locarno. L'idea mi pare buona per più ragioni: Locarno non è "una giave et porta de Italia" come definiva Bellinzona un importante messo milanese del Quattrocento, ma è stata fin dall'antichità uno dei porti lacuali più importanti sulle vie che dalla pianura padana portavano alle Alpi ed oltre. Non deve quindi far meraviglia che vi siano stati ritrovamenti la cui importanza va ben oltre il nostro cantone. Si può dire altrettanto per i valori naturali e per l'architettura rustica che qui riassumono caratteri appartenenti a una buona parte dell'area alpina e prealpina meridionale, dalle valli piemontesi orientali fino a quelle lombarde e bergamasche. Basti pensare a cosa potrebbe offrire una gita esplorativa dal Castello visconteo di Locarno fin su nelle impressionanti costruzioni sottoroccia della Val Bavona e della Val Calnegia. Si pensi anche che a Locarno esiste la raccolta archeologica più importante della Svizzera per il periodo che va dal 1° al 4° secolo dopo Cristo; e che numerosi pezzi dispersi potrebbero finalmente tornare a casa dai musei svizzeri, da Londra e da Berlino, dove finirono negli anni della distrazione. Lo spazio ridotto mi impedisce di continuare. Ma vorrei, se mi è permesso, suggerire una cosa. Si cambi la denominazione di Museo del territorio. È generica, è intraducibile, non è comprensibile per un pubblico vasto. Non è forse già il territorio il museo di sé stesso? E non bisognerebbe, superando per una volta certo qual localismo, pensare che potrebbe trattarsi di un museo scientifico dell'intera area subalpina? Da farsi, questa volta, non in cinquanta ma in cinque-dieci anni al massimo. |
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