Lo zio Adolf, così umano

Approda nelle sale ticinesi giusto in tempo per agganciarsi al sessantesimo della liberazione dell’Italia (25 aprile) e della capitolazione della Germania nazista (8 maggio) il film “Der Untergang” (“La caduta”) di Oliver Hirschbiegel, che racconta gli ultimi 12 giorni di vita di Adolf Hitler. Magistralmente interpretato da uno straordinario Bruno Ganz nei tremendi panni del Führer, il film alla sua uscita in Germania nell’autunno scorso ha acceso un intenso dibattito sia sulla figura di Hitler e sul ruolo del popolo tedesco nella mattanza che fu la seconda guerra mondiale, sia sull’opportunità di mostrare in maniera così umana, intima il più sanguinario dittatore della storia. Si è detto che “Der Untergang” ha infranto un tabù, ha mostrato ai tedeschi quello che per 60 anni si era evitato di raffigurare, lo “zio Adolf”. Ad aprire il dibattito è stato Wim Wenders con un articolato intervento su “Die Zeit” (cfr. anche il riquadrato sotto). “Der Untergang” sarà nelle sale ticinesi da venerdì prossimo, 29 aprile, con un’anteprima al Lux di Massagno martedì 26 alle 20.30. “Der Untergang” è stato sceneggiato dal produttore Bernd Eichinger incrociando due libri che riportano due punti di vista contrapposti. Da un lato quello “pubblico” della fine del regime nazista descritto dallo storico Joachim Fest che nel volume “Der Untergang” descrive gli ultimi 12 giorni del Terzo Reich. Dall’altro il punto di vista “privato” e “intimo” del bunker berlinese nel quale i vertici della gerarchia nazista attorno al Führer erano andati a rifugiarsi, dimensione questa che Traudl Junge, giovane segretaria personale di Hitler, raccontò in un libro-intervista a Melissa Müller (“Bis zur letzten Stunde”). L’agonia del Terzo Reich è dunque vista nelle strade di Berlino da un lato, dove Hirschbiegel mette in scena il dramma del popolo tedesco di fronte alla disfatta, e nel bunker sotterraneo situato nei giardini della cancelleria dall’altro, dove si recita il dramma privato di Hitler, della moglie Eva Braun, dei coniugi Göbbels con i figli, della stessa Junge e dei più stretti collaboratori del Führer. Hirschbiegel è un regista cresciuto nella televisione, e si vede. Minuzioso nella descrizione di dettaglio, “Der Untergang” non riesce però mai ad avere un respiro ampio, davvero cinematografico. I tempi del racconto sono ben congeniati ma non sono mai sorprendenti. E mentre la vita dei tedeschi sotto il sempre più soffocante accerchiamento russo è affrontata di petto, quella di Hitler è guardata con pudore, spesso spiata da dietro un angolo degli infiniti corridoi del bunker, o attraverso una porta rimasta aperta, o da sopra le spalle della corte del Führer, quasi che fosse difficile confrontarsi a tu per tu con lui, direttamente. E in effetti avere a che fare con Hitler, con questo Hitler, quello di Bruno Ganz, non è semplice. Ganz lavora su una notevole varietà di registri, curando il dettaglio senza finire nella caricatura, ma dando uno spessore e una profondità inedite al suo personaggio. Il ritratto che egli fa del Führer è dunque quello di un essere umano: Ganz gli toglie l’aura del mito ma anche la fama di mostro per ridurlo ad anziano uomo di potere, bestiale sì, ma anche, forse per la prima volta, comprensibile, accessibile. È un’operazione a rischio, indubbiamente, e Wenders se n’è ben accorto. Ma che va nella direzione di quella che Hannah Arendt proprio riferendosi ai processi di Norimberga aveva così ben definito “la banalità del male”. Hitler non era altro che un uomo come tutti. Ed è questo che rende ancora più tremendo quanto accaduto in Germania con il nazionalsocialismo: troppo facile se fosse stato un mostro a concepire il Terzo Reich e la soluzione finale, a sedurre prima e soggiogare poi milioni di tedeschi, no, è stata una persona tutto sommato banale e noiosa che ha irretito milioni di persone altrettanto banali e noiose. Sono i tedeschi stessi, come ben ricorda con spietata lucidità Joseph Göbbels nel film, che hanno scelto di seguirlo: sono loro che si sono cercati la loro stessa rovina. Del resto lo ammette la stessa Junge in uno spezzone del documentario tratto dalle sue memorie e che chiude di fatto il film di Hirschbiegel: «non è una scusa dire che eravamo giovani, c’erano cose che si sarebbe potuto sapere. Faccio fatica a scusarmelo». Il secondo rischio insito in questa operazione è quello, se nessuno è più colpevole di altri, di assolvere tutti. Ma “Der Untergang” ha il pregio di confrontare i tedeschi con la loro storia da un punto di vista tedesco e senza eccessive remore: quanto tempo ancora si dovrà aspettare perché anche il cinema italiano sappia parlare a viso aperto del fascismo come si fa nel film di Hirschbiegel con il nazionalsocialismo? Lo stesso Roberto Benigni nel suo “La vita è bella” ci mostra degli italiani tutto sommato brava gente: anche per lui i carnefici sono solo tedeschi. Un punto di vista tedesco, si diceva: perché questo film è stato concepito in primo luogo per i tedeschi. Solo così si spiega il finale eccessivamente consolatorio, del ragazzino della Hitlerjugend appena decorato dal Führer per aver fatto una strage di russi che salva la segretaria e dei due che poi pedalano, quasi con una nuova serenità, verso un futuro che non può essere che radioso, verso una rinascita individuale e collettiva – siamo pur sempre in primavera (e qui “Der Untergang” rischia di cadere in un’altra trappola, come rilevava il 14 aprile Ian Buruma sul Corriere della Sera: è nel mito non solo wagneriano la sublime morte dell’eroe a primavera per redimere e salvare la nazione). Ma per un film così nuovo e inedito nel soggetto e dal potenziale così dirompente era difficile trovare a priori la giusta misura. Forse anche questo spiega la scelta, a ragion veduta incomprensibile, di non mostrare né la morte di Hitler e di Göbbels, né i loro cadaveri: un pudore che, nella spietata carneficina generale che racconta il film, può davvero apparire come un privilegio per i suoi due personaggi più abominevoli (e che Hirschbiegel spiega nel caso di Hitler con l’assenza di informazioni certe sulle modalità del suicidio suo e di Eva Braun). A sceneggiatore e regista è mancato il coraggio di andare fino in fondo, è vero: ma hanno aperto una strada, forse il prossimo film su Hitler questo coraggio potrà averlo. Un film da vedere, dunque. Non perché un capolavoro dal punto di vista cinematografico (a portarlo sono soprattutto gli attori: oltre a Ganz da segnalare almeno Corinna Harfouch e Ulrich Matthes nei panni dei Göbbels), ma perché necessario alla riflessione sul nazismo, sul modo di parlarne e su come noi oggi vi ci rapportiamo. E già questo è un merito. «Se si vuole raccontare qualcosa non basta sapere cosa si racconta, ma si deve anche assumersi la responsabilità di come e da che punto di vista lo si racconta. Nel fare questo film non ci si è posti queste due domande o, peggio ancora, le si è magari addirittura coscientemente evitate». Per Wim Wenders, che ha espresso con forza le sue critiche in un lungo articolo su “Die Zeit”, Oliver Hirschbiegel è soprattutto colpevole con “Der Untergang” di non aver voluto assumere una posizione chiara. E la chiave di questa colpevole equidistanza etica sta tutta nella decisione di non voler mostrare il cadavere di Hitler: «perché non far vedere che il maiale è morto? Perché rendere a quest’uomo un onore che il film non rende a nessun altro dei personaggi che muoiono a ripetizione?», si chiede Wenders. Che osserva la stessa incapacità di prender partito nel finale consolatorio e, peggio ancora, nelle informazioni sul destino dei vari gerarchi nazisti che passano prima dei titoli di coda appaiate a quelle della segretaria di Hitler e altri personaggi sedotti dal nazismo ma innocenti, così che alla fine tutti sono riuniti nella stessa indifferenza morale. «La mancanza di un punto di vista del narratore porta gli spettatori in un buco nero nel quale in maniera (quasi) impercettibile vengono indotti a vedere questo periodo dalla prospettiva del carnefice, per lo meno con una bonaria comprensione per lui», conclude Wenders.

Pubblicato il

22.04.2005 04:00
Gianfranco Helbling