Lo squillo che vale oro

Il biocapitalismo spiegato da Fabio Merlini

Il calendario che fissiamo interdetti (sull’iPhone) ci indica in maniera inequivocabile che è il 30 agosto. Siamo scivolati alla fine delle vacanze. Insomma, mare e monti passés, anche se le fotografie sui nostri smartphone affermano che solo l’altroieri saltavamo sorridenti sui cavalloni d’acqua e ci inerpicavamo sui pizzi come camosci. Ma siamo sicuri che eravamo davvero solo lì? E non contemporaneamente in un altro spazio?


Il dubbio lo insinua il filosofo Fabio Merlini, direttore dell’Istituto Universitario Federale per la Formazione Professionale (IUFFP) di Lugano, che sul tema ha recentemente pubblicato a Parigi, per l’editore Cerf, un libro (Schizotopies. Essai sur l’espace de la mobilitation). Anzi, il professore fa di più, punzecchiandoci alla riflessione: «C’erano la battigia dorata, il sole caldo del tramonto, il suono ritmato delle onde, il lettino a bordo mare, il partner accanto che giocava con la vostra mano…». Ci stiamo facendo coinvolgere, la scenetta è idilliaca, quasi da strazio ora che si è davanti al computer. «Perché allora non l’hai spento quel benedetto telefono? Perché non hai mai smesso di smanettare e non ti sei goduto il momento fino in fondo?» chiede retoricamente a tutti noi il filosofo.


Già, perché non vi siete “disconessi”? Nella pace della casa di campagna. Bip, bip. Non siete riusciti a controllarvi, dando seguito a un messaggio futile e inutile. Guardando i pedalò  in lontananza. Drin, drin. E via in automatico avete risposto al secondo squillo della telefonata intrusiva. Non vi siete fatti mancare neppure una sbirciatina in Facebook; una capatina in Twitter; un “clic” sulle applicazioni dei giochi, mentre buttavate un occhio al sito gossiparo d’informazione e con l’altro controllavate la posta elettronica del lavoro. In quanti luoghi eravate? Qui o là? Ma soprattutto siete riusciti a far davvero vacanza? A interrompere il flusso degli impegni quotidiani?


Fabio Merlini, ce lo dica lei come mai non riusciamo a sottrarci a questa centrifuga di azioni superflue, che ci proietta continuamente in altri spazi paralleli al nostro qui e al nostro ora…
«Di fatto stiamo assistendo a una riscrittura radicale degli spazi contemporanei del vivere sociale. E chi ha il potere di influenzare anche le nostre abitudini? Come sempre i poteri dominanti, quelli dai quali dipende massicciamente il senso delle nostre vite. Semplificando all’osso, direi che la nostra attuale “ansia da connessione” ­– per cui l’iPhone risulta sempre acceso – è un effetto del biocapitalismo, o meglio di quello che io chiamo il tele-tecno-capitalismo».


Ci aiuti a capire, che non è scontato... In altre parole, sta affermando che il nostro tempo – non più solo quello del lavoro, ma quello intimo e personale – è insediato in maniera assidua e costante perché si trasformi in capitale attraverso un semplice telefonino? Ma che cos’è il... biocapitalismo?
«È una forza che agisce su di noi in termini mobilitanti: un appello al quale resistere è molto complicato. Questa riorganizzazione dei nostri spazi di vita comporta una radicale mobilitazione delle nostre energie, competenze, facoltà, capacità relazionali, comunicative e persino emozionali. Il biocapitalismo crea valore aggiunto attraverso prestazioni tecniche, ma soprattutto appoggiandosi alle cosiddette soft competencies, che sono forme di produzione strettamente legate a un coinvolgimento a tutto tondo delle persone e delle loro esistenze. Un coinvolgimento che ha come manifestazione il venire meno della differenziazione pubblico/privato. Un’invasione che si traduce nell’accesso continuo, senza confini e soglie, alla quotidianità delle persone».


Una mobilitazione di massa…
«Lo spazio della mobilitazione è appunto il luogo in cui i poteri dell’economia controllano, indiriz-
zandola, l’energia delle nostre vite per ricavarne profitto. La mobilitazione ha cambiato qualcosa in noi, instaurando la sensazione di essere attesi in continuazione su più fronti. E così in qualsiasi luogo ci si trovi, siamo richiesti contemporaneamente su altre scene in una comunicazione ininterrotta, in un’informazione senza confini. È uno spazio che confonde ed espone».


Ritorna la sua domanda: “Perché non hai spento il telefono?”. Non reggono quindi le giustificazioni “perché devo essere aggiornato, perché nessuna decisione può essere presa senza di me, perché ho dimenticato di spegnerlo”… Siamo indotti a farlo per ragioni economiche: l’alienazione della catena di montaggio è riuscita a impossessarsi di ogni nostra ora? O di quello che viene definito con enfasi “tempo reale”...
 «Il biocapitalismo, o meglio il tele-tecno-capitalismo, si afferma utilizzando l’assetto tecnologico, che oggi ha soprattutto la forma di una teletecnica, cioè una tecnica orientata all’eliminazione delle distanze. Il tempo emergente, da questo processo di eliminazione dell’intermediazione, è il tempo reale, che si traduce nell’immediatezza. Il tempo reale, del resto, è lo slogan che attraversa le nostre esistenze nel tentativo di eliminare la distanza temporale e spaziale. Essere presenti in tempo reale diventa in questo senso un elemento di valorizzazione dell’esistenza stessa. Ma è lecito chiedersi a beneficio di chi e di che cosa?».


Perché non hai spento il telefono? La domanda inizia a trovare risposta... Scusi, ma dobbiamo impostare lo stato silenzioso sul telefono prima di perdere il filo del ragionamento per uno squillo di troppo.
«L’accesso a cose, informazioni e persone è un imperativo dei tempi odierni. L’iPhone in questo senso può essere considerato un’icona della mobilitazione dell’individuo: tutto risulta essere facilmente e apparentemente accessibile. Certo, che con quel piccolo strumento si ha la sensazione di avere il mondo in mano, ma anche gli utenti finiscono con l’essere alla mercé del mondo. Si raggiunge qualcosa o qualcuno alla stessa velocità con la quale si è raggiunti: è un’equazione biunivoca».


Il luogo fisico in quanto tale non è più dunque centrale nelle nostre esistenze?
«Parlerei senz’altro di una esperienza di irrilevanza spaziale, nonostante l’affermarsi dei vari localismi. Da un certo punto di vista il qui della situazione appare del tutto ininfluente, poiché dato un qualsiasi contesto, nessun qui e ora risulta essere in grado di resistere alla pressione dell’esterno e quindi di proteggere la propria unità spazio-temporale».


Un contesto che favorisce la scomparsa, o la sostituzione, dei codici di condotta, affermatesi per proteggere il proprio diritto a uno spazio privato: nessuno si fa più scrupoli a cercarci dopo le 21 o durante l’ora dei pasti. La riscrittura degli spazi contemporanei non contempla il bon ton?
«Un contesto produce sempre un ordine normativo di condotta: sono in famiglia e ci si aspetta da me un determinato comportamento; così pure  se sono ospite a casa di amici o mi trovo al lavoro. Insomma, una linea di condotta istruita dal contesto stesso. Il biocapitalismo instaura la condizione di essere attesi contemporaneamente su più fronti, facendo saltare la normatività dei contesti».


E questo fa sì che non spegniamo mai il telefono…
«In noi agisce la negazione di un diritto. Abbiamo interiorizzato la negazione del dovere di attenerci alle attese comportamentali del luogo in cui ci troviamo fisicamente. Un esempio che vale per molti di noi. Siamo in compagnia dei nostri compagni, ma non smettiamo, se occorre (e anche se non è necessario), di inviare sms o controllare la posta elettronica. Quando i nostri partner a giusta ragione si seccano, non è solo perché avvertono una mancanza di rispetto nei loro confronti, ma è anche perché vivono il disagio di condividere uno spazio incapace di far valere la sua normatività. È un’ esposizione che rischia di far saltare le attese della localizzazione. Sei al bordo del mare? Allora, assumi la legalità di quel contesto. Abbiamo invece interiorizzato la regola della trans-contestualità, ovvero tenere sempre aperte le porte della comunicazione, affinché le logiche dei diversi contesti non si escludano a vicenda. Non siamo più capaci di stare in uno spazio definito, di ritirarci in camera e chiudere le finestre sul mondo. La distrazione è continua e compulsiva e ci proietta fuori. Diciamo che viviamo nella confusione dei qui e degli ora».


Ma ci saranno pur sempre delle priorità o la mobilitazione è tale che non riusciamo più a distinguerle?
 «La priorità è data in parte dal nostro desiderio di essere comunque e sempre presenti in tempo reale, anche se questo desiderio è un effetto del tele-tecno-capitalismo. È un dato di fatto: siamo sospesi in un continuo flusso comunicativo, anche a scapito della comunicazione con chi condivide i nostri spazi di vita. E lo spreco di energie è immenso. Non è un caso se il lavoratore odierno vive la stanchezza come una condizione cronica. A che scopo tutto quanto questo iperattivismo? Davvero tutto ciò riempie di senso le nostre vite?».

 

Questa riscrittura degli spazi che cosa comporta a livello pratico?
«Le attività si moltiplicano, sovrapponendosi. Occuparsi di una sola cosa sembra oramai una perdita di tempo. Alimentiamo la nostra iperattività accelerando il tempo, muovendoci contemporaneamente su più spazi e, quindi, assicurando la nostra presenza su diversi fronti. Il risultato però è un’occupazione smisurata della superficie: una vita di superficie. L’andare in profondità sembra quasi una perdita di tempo. Siccome qualcosa rimane sembra inevaso, nell’organizzazione del lavoro odierno, fermarsi risulta quasi una colpa».


Per rendere l’idea. Pensate a quando in televisione guardate le Olimpiadi e osservate la tensione degli atleti prima dello scatto nelle gare di corsa di velocità. Dio, se corrono veloci. Poi si taglia il traguardo, i muscoli pulsano ancora un po’, infine c’è il momento dei festeggiamenti, del riposo per poi ripartire con gli allenamenti. Noi invece sembriamo come maratoneti che corrono dietro all’ombra di se stessi: è il dramma è che la corsa non finisce mai e non riusciamo più a stare dietro a noi stessi. Sempre un passo indietro alle nostre vite.

Pubblicato il

02.09.2013 10:34
Raffaella Brignoni
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