Prolungare le aperture festive e domenicali dei negozi è un’operazione dannosa per la salute e la qualità di vita delle lavoratrici, dei lavoratori e dei loro familiari, non necessaria per i consumatori, inutile a frenare il fenomeno del turismo degli acquisti oltre frontiera, fortemente penalizzante per i piccoli commerci e, alla fine, per l’intera società. La liberalizzazione giova invece alla grande distribuzione e alla sua progressiva espansione nel mercato della vendita al dettaglio. Sono alcuni dati di fatto che le cittadine e i cittadini ticinesi dovrebbero tenere ben presenti il prossimo 18 giugno, quando saranno chiamati a esprimersi sulla modifica della Legge sull’apertura dei negozi decisa lo scorso anno dal Gran Consiglio e fortemente avversata da un ampio ventaglio di forze sindacali, politiche e della società civile, che, riunite in un comitato unitario, qualche settimana fa hanno lanciato la campagna referendaria.
Una campagna contro una legge dannosa, non necessaria e inutile, ma anche ingannevole e pericolosa e che non riguarda soltanto le persone impiegate nel ramo della vendita, che sono le vittime principali e più appariscenti della liberalizzazione degli orari dei negozi. Ma non le sole. Per quanto riguarda le conseguenze della continua estensione delle aperture dei commerci, in atto ormai da decenni, sul benessere, sulla qualità di vita, sugli equilibri familiari e sulla vita sociale dei dipendenti dei commerci − soprattutto delle donne, che vivono in maniera accresciuta la problematica della conciliabilità tra lavoro e vita privata, oltre a quelle dei bassi salari e della precarietà − invitiamo alla lettura delle illuminanti testimonianze che area ha raccolto. Per le lavoratrici e i lavoratori del ramo diventerebbe insostenibile un’ulteriore dilatazione delle aperture festive e domenicali, su cui peraltro la legge in vigore (solo dal 2020!) già concede grande libertà. Concede libertà a chi fa profitti e la toglie ai salariati della vendita, ma non solo, perché negozi aperti necessitano anche di personale di pulizia, di addetti alla sicurezza, di informatici, di fornitori e di altre figure professionali, cioè di altre persone che dovranno sacrificare la loro vita familiare e sociale. E questo per cosa? Per soddisfare i bisogni di pochi che reputano indispensabile poter fare shopping 7 giorni su 7 e che considerano “moderno” spingersi verso una società che vive e produce 24 ore su 24? Un modello che del resto rappresenta il fine ultimo delle liberalizzazioni e di leggi come quella in votazione il 18 giugno. Una legge che solo apparentemente introduce cambiamenti poco rilevanti (“Cosa volete che sia una domenica di lavoro in più all’anno? Cosa volete che sia un’ora in più la sera? Cosa volete che sia qualche negozio in più aperto nei giorni di festa?”, è il refrain della destra ultraliberista che non ne ha mai abbastanza): una sua accettazione (e qui sta l’inganno) spalancherebbe infatti le porte a ulteriori passi verso una liberalizzazione totale del lavoro festivo e alla trasformazione della domenica in un giorno come tutti gli altri. Una prospettiva certamente non desiderabile dalla maggioranza della popolazione e dei consumatori ticinesi, che evidentemente non hanno nemmeno bisogno di più commerci aperti e più a lungo, come confermano i negozi deserti del giovedì sera nei centri cittadini. Così come non ne ha bisogno nel suo complesso l’economia locale ticinese: è ridicolo affermare che l’estensione degli orari frenerebbe il turismo degli acquisti in Italia, che è un fenomeno strettamente legato al potere d’acquisto delle persone e ai prezzi esorbitanti (spiegabili solo in parte con i costi della manodopera e degli affitti) che garantiscono enormi margini di guadagno, soprattutto ai colossi della grande distribuzione, forti della loro posizione dominante nel mercato. Colossi che sarebbero dunque gli unici ad approfittare delle normative in votazione, che per contro metterebbero ancora più in difficoltà i piccoli commerci, sempre più impossibilitati a far fronte alla concorrenza delle grandi catene, interessate ad impossessarsi di tutto.
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