Il tema che è al centro di questo articolo, l'italiano e la piazza, si presta ad essere interpretato come rapporto, in letteratura, tra chi scrive e chi legge, tra l'individualità dello scrittore e la società che accoglie la sua voce. In ultima analisi, tra il privato e il pubblico. Scrivere e leggere sono attività vitali che riguardano l'individuo. Niente a che fare con lo stato. «La politica mira alla potenza, la letteratura (l'arte) alla verità o alla testimonianza», affermò lo scrittore "engagé" Ignazio Silone. E tutti sappiamo che il contenuto della poesia è il "come", è il linguaggio che non si lascia manipolare. Ma un libro quando viene pubblicato, va in piazza, ha a che fare con la polis. Lo scrittore non è un'anima bella che vive in un bozzolo di seta ma un uomo che si rivolge ad altri uomini, quindi ha una responsabilità pubblica.
Se diamo uno sguardo retrospettivo al Novecento, ci accorgiamo che un cambiamento nell'atteggiamento dello scrittore verso il potere politico si è verificato nella seconda metà del secolo, nel paese in cui vivo: la Svizzera italiana. Un paese stretto, un triangolo che s'incunea nella Lombardia e s'appoggia con le spalle al massiccio del San Gottardo. Demograficamente, un quartiere di Milano. Ma proprio la nostra piccolezza facilita la concentrazione sul tema del nostro incontro. Semplificando e schematizzando, nella prima metà del Novecento prende piede da noi la letteratura intesa come produzione di narrativa e di poesia. Prima il mio paese aveva a che fare con altri problemi: la costruzione dello stato, delle strade, di un'identità, dopo tre secoli di sudditanza ai signori d'oltralpe. Non che non ci fossero scrittori, ma i loro scritti erano prevalentemente d'interesse pratico, politico, storico, encomiastico. Ora, nei primi decenni del secolo che ci ha visto spettatori delle tragedie storiche, appaiono poesie e romanzi. Penso specialmente a due uomini di lettere che hanno lasciato una traccia nella società ticinese: Francesco Chiesa e Giuseppe Zoppi. Ma parlare di neutralità, che è la dottrina ufficiale della Confederazione elvetica, per i nostri intellettuali sarebbe improprio: Chiesa amava i potenti e andò a Roma a far visita al Duce e a farsi incoronare dall'Università capitolina con la laurea ad honorem. Ciò avvenne nel maggio del 1928. Un mese prima a Lugano un pezzo grosso del regime fascista, il senatore Giovanni Gentile, aveva tenuto una conferenza, invitato dall'onnipotente Chiesa che qualche mese dopo, invece, disse di no a un esule antifascista come lo storico Gaetano Salvemini. Non mi pare che si possa parlare di neutralità. A sua volta Giuseppe Zoppi, sano rappresentante degli homines alpini e docente all'Università di Zurigo, nell'introduzione a un'antologia della letteratura italiana ad uso degli stranieri fa l'elogio del fascismo (da notare che siamo nel 1939, dunque dopo la proclamazione delle leggi razziali) ed esclude dalla scelta novecentesca Italo Svevo e Umberto Saba, cioè due fra i maggiori autori del secolo.
Ho già detto che in letteratura ciò che conta è la forma; ma il tema qui trattato ci costringe a trascurare l'estetica. Dunque sfogliamo i libri dei nostri più importanti scrittori e vediamo come si delinea, nelle loro pagine di prosa e di poesia, il rapporto con la polis. Nel 1956, un operaio della valle di Blenio emigrato a Zurigo viene segnalato a un premio letterario con una raccolta di racconti brevi intitolati È nato in casa d'altri, Gesù. Il libro sarà pubblicato solo nel 1963, dopo la morte prematura dell'autore, Sandro Beretta. In questi racconti per la prima volta nella Svizzera italiana sentiamo una voce letteraria che racconta dal basso. Nel racconto breve che dà il titolo al libro e che parla di emigrazione, lo scrittore dice del protagonista: «E allora, c'era tutta un'amara pietà nella sua voce; e il rancore della povera gente, per le cose che sfuggono al nostro potere e contro le quali non vale rivoltarsi uno alla volta». E verso la fine del racconto: «L'ultima volta, prima di partire in America, aveva detto, l'Aurelio, che gli piaceva Gesù, perché aveva sferzato gli scribi e i farisei». (L'aria dal basso, Casagrande, Bellinzona, p.41) Le cose che sfuggono al nostro potere e contro le quali non vale rivoltarsi uno alla volta: una dichiarazione politica di opposizione, mai vista in modo così esplicito nel nostro cantone, da parte di un letterato. Chi si mette contro dà sempre fastidio: ne ho avuto una prova io che, dopo aver scritto un romanzo ispirato alla figura di un socialista dell'Ottocento, a cui farò cenno fra poco, mi sono sentito dare dell'ingenuo. Ingenuo io come scrittore, ingenuo il mio personaggio che ha dato la vita per gli umili! Gli scribi e i farisei, che stanno sempre dalla parte del più forte, non sanno che cosa significa "empatia", "immedesimazione", "metamorfosi", non possono capire che gli scrittori, come dice Elias Canetti, «dovrebbero essere capaci di diventare chiunque, anche il più piccolo, il più ingenuo, il più impotente», sentono il «bisogno stringente di calarsi nelle esperienze di uomini di ogni tipo, di tutti, ma specialmente di quelli che sono meno considerati» (Elias Canetti, La missione dello scrittore, Adelphi, Milano 1984).
Dopo qualche anno, Plinio Martini pubblica un romanzo, Il fondo del sacco, destinato a cambiare il corso delle nostre lettere, almeno per ciò che riguarda il rapporto con la politica. Il tema è ancora una volta l'emigrazione, leitmotiv di un paese povero come il nostro che oggi è diventato paese d'immigrazione e tende a dimenticare il suo passato. In certe pagine di questo romanzo, interessanti soprattutto dal punto di vista polemico, un giudice e un prete dibattono i problemi di fondo della nostra piccola società. Ecco un passo di quella prosa, che svela il punto di vista dello scrittore: «Vedi: gli uomini sono più spesso mediocri che cattivi, e non sempre la democrazia porta in alto i migliori, anzi, ai posti di comando arrivano proprio quelli che hanno le soluzioni prefabbricate, dei quali si può stare sicuri che non faranno sgambetti, quando non si tratta di autentici chiacchieroni. Aggiungi che il nostro paese è un paese piccolo, isolato; la nostra più grossa industria è quella alberghiera, che insegna a piegare la schiena; da noi è sempre mancata una vera classe operaia a portare dal basso un discorso nuovo. Così i nostri dirigenti politici, dopo qualche sforzo nell'ottocento per mettersi al passo con la storia, aiutati dagli esuli del Risorgimento, si sono ben presto adagiati a posizioni di comodo, nella difesa egoistica di grossi e piccoli interessi, …» (Il fondo del sacco, Casagrande, Bellinzona 1970). Dunque, questo discorso nuovo, che viene dal basso e si oppone all'ufficialità, è portato dai nostri scrittori e poeti nella seconda metà del secolo. Due esempi in poesia: la raccolta Sinopie, del 1977, del nostro maggior poeta, Giorgio Orelli, si conclude con una lunga poesia intitolata Foratura a Giubiasco. Eccone la seconda strofa, che ha proprio a che fare con la piazza:
Per dire in contropelo lo strazio patito da una piazza tra le più miti del mondo: ampio prato in pendio che tra castagni d'India e platani (danno ombra ora a vuote automobili) allontanava dolcemente le case verso i monti, paese da scomporre e ricomporre come un Brueghel, ad ogni stagione; ed ora bello come un cesso nuovo, una di quelle belle soluzioni definitive che i cervelli asfaltati dei nostri Consigli Comunali trovano senza ombre di dubbi nel sozzobosco dell'incultura. E allora tu cagnino, alza l'anca, irrora a lungo il frivolo tappeto verde.
Il secondo esempio è preso da un poeta più giovane, che ha vissuto gli anni della contestazione e delle illusioni politiche, Fabio Pusterla. Nella sua prima raccolta, apparsa nel 1985, leggiamo una poesia intitolata Riflessioni sul fallimento che dice nella prima strofa:
Erano le notti che si automobilava senza (naturalmente!) meta, parlando di Artaud, di Stanislawskij, di Jerzy Grotowski, della Comuna Baires, poi miseramente finita in delirante nulla; di sesso e psicanalisi, certo, di politica. Si pensava a uno spettacolo sul terrorismo tedesco, sull'alienazione svizzera: si girava in macchina di notte. Io imparavo a guidare.
Vediamo dunque, in questi versi che radono la prosa, com'è cambiato, rispetto agli anni in cui si adulava il potere, il rapporto tra privato e pubblico, anche nella letteratura della Svizzera italiana.
Per quanto mi riguarda, e mi scuso di terminare questa breve rassegna con un esempio personale, nel rapporto con la polis sto dalla parte di Sandro Beretta, Plinio Martini, Giorgio Orelli, Fabio Pusterla. Ma, per chi scrive, "pubblico", contrapposto a "privato", non significa solo potere politico. Significa soprattutto lettore. Per chi scrive il romanziere, il poeta? Scrive per sé o pensa al destinatario delle sue parole? Io credo che, per chi scrive, privato e pubblico coincidano, dal momento che si decide di stabilire un dialogo con un amico sconosciuto. Che cosa vuol dire, scrivere una poesia, una pagina di prosa, se non rompere il silenzio e la solitudine, anche se non si sa se ci sarà qualcuno ad ascoltarci, anche se non conosciamo il nostro interlocutore? Mentre scrivevo il mio ultimo libro di narrativa, intitolato La prossima settimana, forse (Casagrande, Bellinzona 2008), mi sembrava che dietro la mia scrivania ci fosse un'ombra a sussurrare: «Di' la verità!». Mi pareva che alle spalle qualcuno mi spiasse, forse i fantasmi degli antenati che hanno penato sulla terra. Ma che cos'è la verità? Non esiste una solo verità: la letteratura è il dominio del relativo. Ogni scrittore ha la sua verità e la sua grazia, ma non date in partenza, come un dono della Musa o dello Spirito Santo: la verità e la grazia sono punti d'arrivo, risultato di una lunga corsa fatta di studio, di letture, di un'accanita lotta con le parole. Anche se, come afferma un detto popolare riferito a una delle più antiche università d'Europa, "Ciò che non ti ha dato la natura, non può dartelo nemmeno Salamanca", e dunque non è sufficiente aver un master in materie letterarie per essere scrittori. Occorre una natura particolare. Forse l'ombra alle mie spalle con la parola "verità" intendeva dire: «Attento che stai parlando di uno che è vissuto veramente». Mentre scrivevo correggevo riscrivevo il mio libro, mi sembrava di avere a che fare non solo con la ragione letteraria che m'induceva a scegliere parole e immagini allineate secondo un certo ritmo, ma anche con una ragione morale, non solo con l'estetica ma anche con l'etica: uscire da se stessi per entrare nella pelle degli altri. E qui tornano i principi ai quali ho fatto cenno all'inizio del mio articolo: "empatia", "immedesimazione", "metamorfosi", senza i quali io non riesco a scrivere. Sono principi cha hanno informato il mio lavoro, non so con quale risultato, non tocca a me dirlo: è il lettore che decide. Il lettore si accorge se la freccia dello scrittore colpisce il bersaglio delle emozioni. Per illustrare questi principi mi permetto di trascrivere un passo del mio romanzo che vede al centro della vicenda un emigrante originario della Svizzera italiana che prende coscienza della questione sociale nella Svizzera francese e poi a Lisbona si dedica alla causa del movimento operaio. Io immagino che il protagonista, José Fontana, ammalato di tubercolosi, nel 1871 cominci a tenere un diario. Ecco che cosa scrive: «Perché ho deciso di tenere un diario e di scrivere la mia storia? Non lo so, me lo chiedo. Forse perché nei miei polmoni la macchia umida dilaga e mi sta cambiando anche la mente. La malattia porta con sé domande e memorie. Mi piacerebbe capire qualcosa della mia vita. Per esempio, che cosa mi ha spinto a far entrare gli altri entro di me. Non parlo di libri, bensì di persone operai donne di fabbrica. I libri fanno compagnia, gli uomini feriscono. Ma che cosa vale più dell'uomo? Forse è l'offesa, che mi ha fatto decidere. L'offesa per il male sulla terra. Chiunque passi per strada si riflette nel mio specchio segreto. Non posso far finta di niente. Io sono come lui. Io sono lui» (p.14)
In questo brano si ripropone il tema dell'identificazione con gli altri.
Per concludere, vorrei allearmi con Tzvetan Todorov (La letteratura in pericolo, Garzanti, Milano 2008) secondo il quale compito dello scrittore non è quello di rifugiarsi narcisisticamente nel ricamo nichilistico, nel solipsismo, nel formalismo, ma piuttosto quello di parlare della condizione dell'uomo sulla terra.
(Testo pronunciato il 20 ottobre all'Università di Salamanca e il 22 ottobre all'Università di Burgos nell'ambito dell'Ottava edizione della Settimana della lingua italiana nel mondo) |