Agli operai e agli impiegati della Fiat non mancano i motivi per aderire allo sciopero proclamato per il 7 giugno unitariamente da Fim, Fiom e Uilm contro i 3 mila licenziamenti annunciati dalla multinazionale del Lingotto e la liquidazione di un secolo di storia dell’automobile italiana. Ma mentre tutte le fabbriche del gruppo torinese si fermeranno per quattro ore, i lavoratori non potranno non chiedere ai sindacati metalmeccanici della Cisl e della Uil ragione della rottura con la Cgil, cioè dell’abbandono della battaglia in difesa dell’articolo 18. Sono gli stessi dirigenti di Fim e Uilm (vedi l’altro articolo in questa pagina) a chiedere alle proprie confederazioni di ritrovare la strada unitaria, abbandonando il collateralismo al governo Berlusconi e alle organizzazioni padronali. Ma intanto, è positivo che regga l’unità dei metalmeccanici nella vertenza sindacale italiana più importante, dal cui esito dipende il futuro di due100 mila lavoratori nel nord e nel sud dell’Italia, in Polonia e in Turchia, in Argentina e in Brasile, in Sudafrica e nel Maghreb, in Cina e in India e persino in Vietnam. Dopo l’accordo con le banche creditrici della Fiat – che concede un po’ di ossigeno al Lingotto, in cambio di un percorso di lacrime e sangue per ridimensionare un indebitamento stratosferico (6,6 miliardi di euro al netto, 35 al lordo) – si è aperta la stagione delle dismissioni di importanti rami d’azienda e della mattanza sociale. Le ragioni del fallimento del progetto industriale sono chiarissime urbi et orbi, e finalmente le ammette persino il nuovo amministratore delegato della Fiat Auto: la società ha sbagliato i modelli di vetture immesse nei catatonici mercati europei e mondiali, ha perso quote e ha operato in modo dissennato sui prezzi per arginare la caduta, facendo crollare la redditività fino a perdere soldi per ogni automobile venduta. Ora si tratta di capire se è ancora possibile intervenire per salvare l’auto italiana, e come. La proprietà italiana (il 20 per cento è già stato venduto agli americani della General Motors) è divisa, la famiglia Agnelli che è il primo azionista della Fiat è divisa tra chi tenta di salvare il salvabile, rilanciando la ricerca e gli investimenti nel settore più importante, e chi vorrebbe anticipare la vendita del rimanente 80 per cento ai soci di Detroit. Approfittando del grave stato di salute del patriarca, l’avvocato Gianni Agnelli, il fratello minore – in tutti i sensi – Umberto ha tentato la strada della definitiva finanziarizzazione del gruppo. L’improvviso ricovero del senatore in un ospedale di New York è stato occasione per una indecente speculazione in borsa, a partire dal fatto che l’ultimo ostacolo alla vendita dell’auto è proprio la sopravvivenza del malato. Ogni volta che Gianni Agnelli veniva dato per morto, le azioni Fiat invertivano la tendenza al ribasso per un breve sussulto vitale, come abbiamo raccontato su questo giornale nelle scorse settimane. Così è successo che quando martedì scorso, nella splendida cornice della Palazzina di caccia ex-Savoia a Stupinigi, è arrivata la notizia del rientro in Italia dagli Usa del presidente onorario, l’applauso dei presenti è scattato all’unisono, spontaneamente. I presenti erano l’amministratore delegato Boschetti con l’intero management della Fiat Auto e i giornalisti, in occasione della presentazione del piano industriale per rilanciare il malmesso settore. Anche a un paio di chilometri da Stupinigi, dove si trova lo stabilimento di Mirafiori, si è tirato un sospiro di sollievo. È davvero singolare che l’avversario di sempre, l’avvocato Agnelli, sia diventato un punto di riferimento persino tra le tute blu, che si battono in difesa del lavoro e della produzione automobilistica. Salvare la Fiat non sarà semplice, con un governo e una Confindustria ostili alla Fiat di Agnelli. Un’ostilità che viene da destra, e non è che la Fiat sia mai stata tenera con la sinistra e il movimento operaio. Ma al peggio, è banale ricordarlo, non c’è limite. L’unico modo per ridare un futuro all’automobile e agli uomini e alle donne che ci lavorano sarebbe l’avvio di un vero piano industriale, capace di ricollocare i marchi Fiat, Lancia e Alfa Romeo (la Ferrari sarà quotata in borsa per raggranellare un po’ di soldi) nei mercati, con modelli competitivi, lavorando a una nuova generazione di automobili che risponda a una domanda mutata del pubblico, orientato verso macchine eco-compatibili. La strada è quella dei propulsori a idrogeno, meno inquinanti, su cui stanno lavorando tutte le aziende ma su cui la Fiat è in grave ritardo. A questo scopo bisognerebbe indirizzare molte risorse nella ricerca e nella sperimentazione, servirebbe una politica orientata del governo che è latitante, come è latitante gran parte dell’opposizione di centrosinistra, abbagliata dall’ideologia postindustrialista. E servirebbe una rivoluzione nelle relazioni industriali della Fiat, che da anni nega persino il confronto e l’informazione ai sindacali limitandosi a comunicare sempre maggiori periodi di cassa integrazione (a giugno restano a casa quasi 15 mila lavoratori) e sempre maggiori esuberi. Mirafiori rischia di scomparire e con essa il lavoro di 14 mila diretti, 10 mila dipendenti delle società terziarizzate e 73 mila dell’indotto auto. In una città di 800 mila e in un’area metropolitana di 1,5-2 milioni di abitanti, centomila famiglie rischiano di restare senza reddito. Intanto si comincia con tremila richieste di mobilità, cioè prepensionamenti, con una ricaduta nell’indotto di 12 mila posti di lavoro perduti. Ecco le ragioni dello sciopero dei dipendenti Fiat, che devono combattere su più fronti. Contro la direzione della Fiat, che pretende sacrifici senza un progetto per il futuro; contro l’assenza del governo; contro il silenzio dell’opposizione e del sindaco di Torino, che si illudono di poter ridare un’identità postindustriale a una città Fiat-dipendente. L’illusione di un boom del terziario, impossibile in una città a un’ora e un quarto di treno da Milano, l’illusione che le olimpiadi sulla neve del 2006 possano costituire chissà quale volano per un nuovo modello di sviluppo basato sul cemento invece che sulla produzione merceologica. Si può anche essere critici, come noi siamo, sul modello dell’auto, ma non si può non essere realisti: la Thatcher sbaraccò insieme ai sindacati britannici l’intera industria automobilistica inglese, con il risultato che ora a Londra si continuano a comprare automobili, naturalmente straniere. E non è un caso che Francia e Germania abbiano salvaguardato e rafforzato la produzione automobilistica nei rispettivi paesi. Il dramma dell’Italia di Berlusconi è la totale mancanza di una politica industriale, e la conseguenza potrebbe essere la riduzione del made in Italy alla produzione di scarpe e t-shirt fabbricate in Romania.

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07.06.02

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