È un caso di contaminazione industriale tra i più estesi d’Europa, eppure stenta a fare notizia. In Veneto la falda idrica che corre tra le province di Vicenza, Verona e Padova è contaminata da composti chimici tossici che vi si sono accumulati per decenni, minacciando la salute di circa 350mila persone. Si tratta di Pfas, sostanze perfluoro alchiliche, sigla sconosciuta ai più. Indica delle molecole che non esistono in natura, ma sono presenti in decine di oggetti di uso quotidiano: dalle pentole anti-aderenti al rivestimento impermeabile dei piatti di carta o gli imballaggi alimentari; sono nei tessuti impermeabilizzati, nel Goretex, nelle schiume antincendio, perfino nella sciolina degli sci.
Tra i colli del Veneto la sigla Pfas è diventata un nome familiare nei primi mesi del 2017, quando l’Azienda sanitaria locale ha invitato i ragazzi a partire dai 14 anni a partecipare a un piano di sorveglianza sanitaria. «Quando sono arrivati i risultati mi sono spaventata» ricorda Michela Piccoli, infermiera di Lonigo, cittadina ai piedi dei Colli Berici non lontano da Vicenza: «Mia figlia, allora 16enne, aveva nel sangue quantità di Pfas undici volte superiori a quella considerata tollerabile», quasi 80 nanogrammi (miliardesimi di grammo) per millilitro di sangue invece degli 8 nanogrammi limite. Centinaia di famiglie hanno scoperto allora che i propri figli avevano veleni nel sangue, e che i Pfas sono sospetti cancerogeni e interferenti endocrini, cioè sostanze che interferiscono con il sistema ormonale e possono pregiudicare la crescita. Uno shock: «Io che mi ero sempre fidata delle istituzioni mi sono sentita tradita. Nessuno ci aveva detto di non bere l’acqua del rubinetto». Insieme ad altre madri e padri, Piccoli ha cominciato a raccogliere informazioni. Da allora il gruppo delle “Mamme no Pfas” è parte di un ampio movimento di cittadini per la salute in questo territorio. L’inquinamento da Pfas in Veneto però era noto almeno dal 2013, quando l’Istituto di ricerca sulle acque del Consiglio nazionale delle ricerche ha pubblicato un’indagine sulle sostanze perfluoro alchiliche nei bacini fluviali. Il Veneto era il caso più allarmante; l’Agenzia regionale di protezione ambientale è risalita alla fonte, trovandola negli scarichi di un’azienda chimica del vicentino, la Miteni.
Negli scarichi della Miteni La storia di quest’azienda del Nordest italiano è paradigmatica. All’imboccatura della val d’Agno, lo stabilimento era stato fondato nel 1965 dall’industria tessile Marzotto, che cercava sostanze per impermeabilizzare i tessuti. L’anno successivo la Rimar (“Ricerche Marzotto”) ha cominciato a produrre composti perfluorati, in particolare il Pfoa brevettato negli anni 40 dalla 3M negli Stati Uniti (ripreso nel 1951 dalla DuPont con il marchio Teflon). Nel 1988 la Marzotto ha ceduto lo stabilimento a una joint venture di Mitsubishi ed Enichem, da cui il nome Miteni (Enichem però è uscita dalla proprietà nel ’96). Nel 2009 il gruppo giapponese ha venduto Miteni, per la simbolica somma di un euro, a un fondo d’investimento con sede in Lussemburgo, il Chemical Investors Group (Icig SE). Lo stabilimento intanto ha sempre continuato a produrre componenti perfluoro alchilici e a scaricare i suoi reflui in un torrentello che costeggia la fabbrica, il Poscola. Gli scarichi sono passati da un affluente all’altro fino al fiume Brenta, ma soprattutto sono percolati nel sottosuolo, uno strato di ghiaie alluvionali profondo tra 15 e 20 metri che forma il secondo bacino acquifero d’Europa per volume. Per una cinquantina d’anni i reflui tossici si sono accumulati nella falda, spostandosi a una velocità media di circa 1.200 metri all’anno. Nel 2013, quando il Cnr ha rivelato la presenza dei Pfas, la regione Veneto ha accertato che gli acquedotti di 21 comuni portavano acqua contaminata: sono la “zona rossa”. In altri 12 comuni il problema sono i pozzi privati a uso potabile, che pescano dalla falda contaminata (è la “zona arancione”). La Regione ha fatto allora installare filtri a carbone attivo agli acquedotti, per diminuire la concentrazione di Pfas. Ma qual è una soglia accettabile? Sembra assurdo, ma in Italia manca tuttora una norma nazionale. Nel gennaio 2014, in polemica con il Ministero della salute, la Regione Veneto ha fissato il “suo” limite, e lo ha ulteriormente abbassato nel 2017: oggi è di 90 nanogrammi per litro di acqua potabile per la somma di Pfoa e Pfos e non oltre 300 ng per tutti gli altri Pfas. Sempre nel 2017 la Regione ha ordinato di raddoppiare i filtri, che si saturano spesso e vanno sostituiti. Una soluzione più stabile sarà costruire nuovi acquedotti che attingano a fonti non contaminate: la costruzione è in corso ma richiederà ancora parecchi mesi. I pozzi però, usati per irrigare gli orti e abbeverare il bestiame, restano una fonte di contaminazione importante. Senza contare che lo stabilimento, inattivo da quando nel 2018 la Miteni ha dichiarato fallimento, in mancanza di bonifica continua a disperdere sostanze tossiche.
La congiura del silenzio Oggi è chiaro che i Pfas nella falda idrica sono un disastro ambientale e sanitario di vaste proporzioni: ma rompere il silenzio non è facile. In effetti i primi medici che avevano osservato un’incidenza preoccupante di certe malattie sono stati tacciati di allarmismo. Nel 2015 però una prima indagine della Asl di Vicenza su un campione di cittadini adulti ha trovato che molti avevano nel sangue Pfoa fino a 35 volte più della soglia di pericolo. Sono emerse le prime osservazioni che legano i Pfas a incidenze allarmanti di ipercolesterolemia, malattie della tiroide, e un aumento dei tumori al testicolo. C’è stata la prima indagine sui lavoratori della Rimar/Miteni, che ha rivelato tra l’altro un’alta incidenza di tumori al fegato. Altri studi hanno osservato un aumento significativo di diabete e ipertensione in gravidanza, e anomalie congenite dei neonati. Infine, su pressione delle organizzazioni ambientaliste, nel 2017 la Regione ha avviato un Piano di sorveglianza sanitaria sui residenti della “zona rossa”, cominciando dai più giovani. Forse è proprio allora che il silenzio si è rotto. La battaglia del “movimento no Pfas” però non è conclusa. Lo scorso gennaio la Società dei medici per l’ambiente (Isde), ha denunciato che sette anni dopo le prime denunce sui Pfas la popolazione «è ancora esposta a concentrazioni significative e potenzialmente tossiche» di queste sostanze.
A ottobre il primo processo Intanto, i Pfas sono approdati in tribunale. Il 12 ottobre presso il tribunale di Vicenza comincerà il dibattimento del primo processo penale che ha per oggetto l’inquinamento dell’acqua potabile. Riguarda i fatti fino al 2013 e vede imputati i dirigenti della Miteni in carica tra il 2002 e il 2013, insieme ai vertici di Mitsubishi e Icig. Sono parti civili la Regione Veneto e diversi gruppi di cittadini, tra cui le Mamme no Pfas, Legambiente e Greenpeace. Mitsubishi e Icig si sono costituite “responsabili civili”, cioè hanno accettato di farsi carico dei danni che i giudici potranno accertare. Infine, una seconda indagine giudiziaria potrebbe dare nuovi sviluppi. Infatti nel 2013 la Miteni ha smesso di produrre i “vecchi” Pfoa e Pfos, ma solo per passare a una nuova generazione di composti perfluoro alchilici, noti come GenX e C6O4. In particolare, dal 2014 ha estratto GenX da scarti industriali della Chemour (il colosso chimico erede della DuPont), importati dall’Olanda con autorizzazione della Regione Veneto. Solo nel 2017, quando il governo olandese ha informato quello italiano del potenziale rischio, il traffico si è fermato. Perché era stato autorizzato? La storia tossica dei Pfas non è ancora terminata.
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