Diario di classe

Nelle scorse settimane si è evidenziata nei media la preoccupante crescita del disagio giovanile. Giustamente alcuni deputati di diversi partiti hanno chiesto di intervenire, proponendo un approfondimento in grado sia di monitorare meglio il fenomeno, sia di trovare i modi più opportuni per agire. Sia nell’atto parlamentare, sia nel dibattito mediatico si è spesso associato in modo forte questo aumento del disagio alla pandemia, quasi si trattasse, per alcuni osservatori, di un rapporto causa/effetto.


Personalmente, sulla base della mia lunga esperienza di docente, fatico ad accettare questa associazione perché credo comodo e assolutorio ritenere la pandemia la causa principale e non semplicemente un catalizzatore di uno stato di cose presenti e bellamente ignorate per molto tempo nella nostra società. Ripercorrendo miei precedenti scritti per area, risalenti anche a parecchi anni fa, non ho difficoltà a documentare come tra i banchi della scuola professionale per apprendisti il disagio giovanile ci sia sempre stato: un disagio certamente cresciuto negli anni in modo importante, un disagio segnalato ed evidenziato tante volte soprattutto da parte di docenti e genitori, un disagio che ha trovato alcune risposte, in diversi casi anche importanti, nella scuola, ma che non ha trovato quasi nessun ascolto nella società. Per molti anni sembrava infatti fosse un compito esclusivo della scuola media prima e poi, in particolare della scuola e degli attori della formazione duale (quindi anche le aziende formatrici), farsi carico di questi problemi cercando e inventando soluzioni possibili.


Da tutto ciò ben si comprende come la pandemia abbia fatto crescere e in alcuni casi fatto esplodere il disagio, perché per periodi significativi la scuola c’è stata in modo diverso (a distanza), c’è stata in modo limitato spesso alle sole ore scolastiche, non c’è stata con le attività sportive, musicali (anche quella è scuola!). La famiglia è quindi restata sola a contenere, a dire sì e no, a motivare e convincere, a stimolare e proporre, a spronare. Ma le famiglie non sono sempre in grado di farlo, perché a loro volta sono assillate dal riuscire ad arrivare alla fine del mese, con salari di 1.000 franchi più bassi della mediana svizzera e ulteriormente decurtati del 20% per il lavoro ridotto, con un rischio di povertà del 24% contro la media nazionale del 15%, con il lavoro a distanza in luoghi di vita inadatti a svolgerlo. E il risultato è questo.


Certo la pandemia ci ha messo del suo soprattutto nell’evidenziare e acuire le ricadute di una società ticinese da tempo in grave difficoltà, in cui una parte importante di essa non riesce a vedere prospettive e fa una gran fatica nella lotta quotidiana con la realtà. C’è allora da chiedersi se, in queste condizioni, ci sia da stupirsi che tante famiglie fatichino a dire no, a motivare, a stimolare, a tenere a freno i propri figli.


Per questo mi sembra facile e assolutorio dare gran parte della colpa al Covid! In Ticino c’è invece un urgente bisogno di cambiamento, profondo e concreto, per rispondere in tempo utile alle difficoltà delle persone e per promuovere la parte sana della sua economia. Rimbocchiamoci dunque le maniche e costruiamo con convinzione questo cambiamento!

Pubblicato il 

30.06.22
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