«Le vacanze fanno bene alla salute dei lavoratori»

Le patologie da stress che colpiscono sempre più individui sono indissolubilmente connesse con il mondo del lavoro e con le condizioni di vita che questo impone. Il tempo di riposo è da questo punto di vista un fattore importante. In previsione della votazione federale dell'11 marzo sull'iniziativa popolare (promossa da Travail Suisse e sostenuta dall'intero movimento sindacale svizzero) che chiede sei settimane di vacanza per tutti, area ha voluto provare a valutarne i possibili effetti benefici sulla salute dei lavoratori.

Per questo ha interpellato Nicola Grignoli, psicologo presso il Laboratorio di psicopatologia del lavoro di Lugano, struttura operativa dal 2005 che si occupa di osservare e analizzare il fenomeno della malattia legata al mondo del lavoro.

Dottor Grignoli, secondo uno studio della Segreteria di Stato dell'economia (Seco) del 2010, un lavoratore su tre vive una condizione di stress e uno su quattro è a rischio esaurimento. In che misura il fenomeno è constatabile dal Laboratorio di psicopatologia?
Le persone che si rivolgono al nostro servizio presentano nella quasi totalità dei casi una problematica legata allo stress in generale e la maggioranza lamenta un disagio lavorativo riconducibile a conflitti e tensioni sul posto di lavoro. La seconda problematica più frequente è il licenziamento. Assistiamo sovente al deterioramento delle dinamiche interpersonali all'interno dei contesti lavorativi con una degenerazione dei rapporti e spesso con l'inasprimento dei conflitti fino a giungere all'allontanamento della persona dal posto di lavoro. I nostri utenti segnalano sovente ambienti di lavoro caratterizzati da sovraccarico o intensificazione dei ritmi. È indubbio che il peggioramento generale delle condizioni-quadro del contesto socio-economico globale si ripercuote negativamente anche sulle persone regolarmente occupate, determinando una sensazione di maggiore incertezza e insicurezza. Ci confrontiamo, oramai da qualche anno, con diversi fattori di rischio: a quelli classici (chimico, fisico biologico), si sono affiancati i fattori di rischio psicosociale che, se non prevenuti e gestiti, possono incidere negativamente sulla salute dei lavoratori.
La situazione va considerata allarmante?
Direi piuttosto preoccupante e certamente va presa in seria considerazione sia dalle istanze politiche sia da quelle economiche.
La pressione sui lavoratori è cresciuta parallelamente alla terziarizzazione dell'economia e all'automazione dei processi produttivi, che hanno contribuito a ridurre il dispendio di forza fisica ma ad aumentare massicciamente l'impatto sul piano mentale ed emotivo. Vuol dire che l'uomo sopporta più facilmente lo sforzo fisico rispetto alle pressioni psicologiche?
Si tratta di evoluzioni sociali ampie per le quali è difficile stabilire delle correlazioni semplici e determinare dei legami causali. Possiamo però ipotizzare che la terziarizzazione del lavoro ha diminuito le malattie somatiche classicamente legate allo sforzo fisico, così come gli infortuni professionali, contribuendo così all'aumento della speranza e della qualità di vita. L'evoluzione di questo processo è stata molto rapida e l'aumentato sforzo cognitivo e sociale richiesto dalle attività lavorative contemporanee non è stato forse preparato adeguatamente a livello educativo, formativo. Così come ci si allena fisicamente per affrontare una performance che richiede un maggiore sforzo, bisogna poter esercitare la mente ad affrontare nuove sfide. Il cervello possiede straordinarie capacità di adattamento e di apprendimento di fronte ai nuovi stimoli e reagisce normalmente con efficacia alle situazioni di stress.
Parallelamente, probabilmente in linea con lo stile di vita dei paesi industrializzati, è aumentata la prevalenza generale delle malattie psichiche, in particolare della depressione che è destinata a divenire la seconda causa di inabilità nel mondo entro il 2020.
Va rilevato che, per quanto riguarda la salute, le componenti bio-psico-sociali sono indissolubili  e interdipendenti per cui una difficoltà sul piano psichico ha, per esempio, ripercussioni sul piano fisico (stanchezza, maggiore vulnerabilità alle malattie) e su quello sociale (relazioni sociali e famigliari, inabilità lavorative). Così come è vero il contrario: uno o più eventi stressanti a livello lavorativo o famigliare espongono gli individui, che pur non hanno mai presentato delle problematiche psichiatriche, ad un maggior rischio di disadattamento.  
La Suva (l'Istituto nazionale svizzero di assicurazione contro gli infortuni) afferma che lo stress, che già oggi produce costi sociali stimati in 10 miliardi di franchi all'anno secondo il citato studio della Seco, in futuro sarà la principale minaccia per la salute sui luoghi di lavoro. È d'accordo con questa previsione? Che tipo di evoluzione ci si può attendere per i prossimi anni?
Abbiamo a che fare con calcoli previsionali di grande portata sui quali è difficile pronunciarsi. Facciamo inoltre fiducia alle competenze in merito della Suva. È verosimile che continuando di questo passo lo stress aumenterà, causando i problemi di salute che conosciamo. Questa situazione non è causata però soltanto dal tipo di attività richiesta e dalle modalità di lavoro, ma anche dall'insicurezza che viene trasmessa al lavoratore riguardo alla sua posizione professionale. L'aumento del lavoro flessibile, degli impieghi ad ore, dei contratti a tempo determinato non dà le garanzie sufficienti per poter proiettarsi nel futuro e godere di una progettualità. L'incertezza che regna in questo momento nel campo economico ha dunque forti ripercussioni in ambito lavorativo ed è una grande fonte di "cattivo" stress. Siamo maggiormente capaci di affrontare le esigenze crescenti e raccogliere nuove attività impegnative quando ci sentiamo sicuri, protetti e valorizzati nel nostro operato. Inoltre la mancanza di lavoro e la disoccupazione, che per chi lavora risulta essere uno spettro molto temibile, aumentano la paura e l'insicurezza odierne.
Quali interventi si imporrebbero per correggere questa evoluzione?
Innanzitutto sembra importante rafforzare la formazione continua delle persone in attività lavorativa e continuare a comunicare riguardo alla salute in ambito professionale, contribuendo allo sviluppo di una cultura del benessere. Non è superfluo sottolineare al proposito che una maggiore soddisfazione è sinonimo di un maggior rendimento e di conseguenza il benessere è un obiettivo che dovrebbe stare a cuore a tutte le parti in gioco.
Mi pare infine fondamentale riorganizzare la distribuzione del lavoro e l'organizzazione del tempo lavorativo, in particolare permettendo un migliore equilibrio fra vita privata, famigliare, sociale e attività lavorativa.  
Un aumento della durata delle ferie potrebbe rappresentare una misura utile da questo punto di vista?
Certamente.
Quattro settimane di ferie all'anno sono un tempo adeguato per consentire un recupero delle forze psicofisiche? In linea generale si può affermare che oggi vi è un disequilibrio fra tempo di lavoro e tempo libero?
È una questione in parte soggettiva. Per alcune persone, in particolare quelle che hanno un forte investimento personale nella propria attività lavorativa, possono essere sufficienti. Bisogna però dire che certi lavoratori non prendono le vacanze (e dunque rinunciano a un diritto) per senso di responsabilità, per non gravare sull'organizzazione, sul rendimento dell'attività lavorativa o talvolta per un eccessivo coinvolgimento e difficoltà a staccare.
Vi sono poi altri soggetti che considerano quattro settimane insufficienti per potersi riposare e per investire del tempo in altri ambiti importanti per la qualità di vita. Le più di 100 mila firme raccolte per l'iniziativa popolare in discussione sono un chiaro segnale di un'esigenza in questo senso, ma anche l'indizio dell'esistenza di un movimento che si pone in controtendenza rispetto ai valori (fino ad oggi prevalenti) orientati primariamente al profitto, alla performance e all'identificazione totale con l'attività lavorativa.
In tale contesto, nell'ottica di trarre un reale benessere dalle vacanze, assume importanza non solo il numero di giorni trascorsi ma anche la qualità degli stessi. In alcune grandi aziende si sollecitano i dipendenti a usufruire di due settimane di vacanza continuative per promuovere un reale "stacco" dal lavoro. È fondamentale che queste non vengano spese trascorrendo ore e ore davanti al computer o con il cellulare sempre acceso per rispondere a quesiti riguardanti il lavoro, ma dedicandosi ad attività piacevoli, alle relazioni sociali, all'apprendimento di cose nuove.
Vi sono categorie sociali o professionali o gruppi di età che hanno più bisogno di altri?
Come spesso succede, sono le classi di età ai limiti della distribuzione ad essere più vulnerabili. Da un lato dunque i lavoratori anziani: con l'età diminuiscono infatti le capacità fisiche (forza) e psichiche (concentrazione), il che comporta una minore resistenza e una maggiore faticabilità. Si fatica quindi maggiormente a reggere i crescenti ritmi lavorativi e i tempi di recupero sono più lunghi. Questo problema è spesso sottovalutato perché la stanchezza è invisibile e a volte viene nascosta per non sfigurare, per non deludere le aspettative di performance.
Dall'altro lato vi sono i lavoratori più giovani, che hanno la necessità di costruirsi al di fuori dell'universo lavorativo e di investire nelle relazioni sociali e affettive, ma che hanno il tempo contato per curare e sviluppare questi ambiti fondamentali. Le ferie naturalmente, che non sono per forza le vacanze da passare sotto l'ombrellone, sono un'occasione per avere maggior tempo da dedicare ad altri campi di interesse, ad attività interessanti e con altre persone, in famiglia o al di fuori.
L'introduzione delle sei settimane di ferie per tutti, come chiede l'iniziativa popolare in votazione il prossimo 11 marzo, rappresenterebbe a suo avviso un investimento in favore della salute, come sostengono i fautori della proposta?
Dal nostro osservatorio possiamo affermare che un aumento delle ferie potrebbe verosimilmente contribuire, insieme con una diversa distribuzione ed organizzazione del tempo lavorativo, ad un miglioramento della salute psicofisica così come del benessere sociale della popolazione.
Non dobbiamo dimenticare tuttavia quelle persone impiegate con contratti di lavoro flessibili (su chiamata, a progetto, a ore, eccetera) per le quali si rendono necessari interventi mirati affinché possano anch'essi beneficiare della tranquillità delle vacanze ed evitare quei fenomeni, frequenti, di lavoratori che si recano al lavoro nonostante siano ammalati (perché temono di perdere il posto  oppure perché sono retribuiti a ore) o che sono costretti a ridurre quelle che sono considerate "vacanze" ad un intervallo tra due lavori per cercare un'altra occupazione.

Svizzera ultima della classe

Con medie di 44 ore di lavoro settimanali e cinque settimane di vacanze retribuite all'anno, la Svizzera è il paese d'Europa che concede meno tempo di riposo ai salariati. Lo confermano tutte le statistiche internazionali, oltre che gli studi sul fenomeno dello stress.

Secondo il più recente rilevamento pubblicato nell'ottobre 2009 in cui vengono messe a confronto le regolamentazioni su ferie e giorni festivi di una quarantina di paesi, la Confederazione si colloca in coda a questa speciale classifica. Il confronto si basa sul diritto legale di un dipendente occupato al cento per cento con dieci anni di servizio in azienda: con i 20 giorni stabiliti dal Codice delle obbligazioni (CO), la Svizzera viene di gran lunga superata da Francia e Finlandia (30 giorni), Gran Bretagna e Russia (28), Polonia (26), così come da Danimarca, Norvegia, Austria, Grecia e Svezia (tutti 25). Lo stesso discorso vale per i giorni festivi: solo 9 in Svizzera contro i 14 della Spagna, i 13 di Austria e Portogallo e i 12 di Russia e Grecia.
Nel nostro ordinamento, il diritto alle vacanze è innanzitutto regolamentato dal Codice delle obbligazioni (Co): esso stabilisce un minimo di quattro settimane per tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori e almeno cinque per i giovani fino a vent'anni. La legge afferma in modo esplicito che le ferie sono tempo libero dal lavoro e che servono al riposo. Proprio per questo un datore di lavoro non può per esempio compensarle con una retribuzione in denaro. Queste norme, in vigore dal 1984, furono adottate in sostituzione delle varie regolamentazioni cantonali che fissavano tra le due e le tre settimane. In seguito non sono mai più state modificate e adattate alle nuove esigenze e alle mutate condizioni del mondo del lavoro. Tuttavia, grazie ai contratti collettivi di lavoro e alle normative che disciplinano gli impieghi pubblici, allo stato attuale il 47 per cento dei lavoratori ha diritto fino a cinque settimane di vacanze, il 19 per cento fino a 6 e l'8 per cento di più, come indicano i dati (aggiornati al 2009) dell'Ufficio federale di statistica (Ufs). I salariati che dispongono di sole quattro settimane sono il 26 per cento. Risulta così che i lavoratori in Svizzera hanno in media 5 settimane di vacanze retribuite all'anno.
Sussistono però sostanziali differenze tra i vari rami professionali (vedi tabella a destra): tendenzialmente i salariati che godono di più giorni di vacanza sono quelli del settore terziario, mentre quelli che ne hanno di meno sono i lavoratori agricoli. Un'importante variabile è data anche dall'età: in considerazione del fatto che i lavoratori anziani necessitano di periodi di riposo più lunghi per riprendersi dalle fatiche professionali, agli ultracinquantenni vengono concessi di regola almeno quattro giorni di ferie supplementari.
Ma anche dietro i valori medi dei vari gruppi di età (tabella a destra) si nascondono grandi differenze. Si deve infatti considerare la posizione fragile dei salariati che percepiscono bassi redditi, che hanno un impiego a tempo parziale o che sono pagati a ore: per queste categorie è raro che le regolamentazioni sulle vacanze vadano oltre il minimo prescritto dalla legge.   

Pubblicato il

27.01.2012 01:30
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