Le trappole fatali

Dovunque ci si affanna a cancellare ciò che è «pubblico» per sostituirlo con ciò che è «privato». All’operazione in atto da tempo si danno due nomi l’uno all’altro legati: liberalizzazione e privatizzazione. Sono i gangli della ideologia economica dominante battezzata, genericamente, globalizzazione. All’operazione si tenta pure di dare una giustificazione. Il «pubblico» è superato perché lento, inefficace, burocratico, inscatolato, illiberale, sprecone, con la copertura assicurata ma irrazionale del bilancio pubblico; il «privato» è inevitabile per l’efficacia e la libertà imposte dal mercato, per l’agilità della conduzione e delle risposte manageriali, per la costrizione alla massima competitività sempre sanzionata dai costi, dai prezzi e dalle tariffe. C’è una tendenza, soprattutto tra la sinistra, a ritenere possibile una distinzione tra liberalizzazione e privatizzazione. La prima risponderebbe ad una necessaria esigenza di economia di mercato, favorirebbe la concorrenza nel senso di una migliore prestazione e di una riduzione dei costi ed è quindi auspicabile. La seconda punterebbe invece sulla ricerca del massimo profitto per poche persone o gruppi di interesse e, annullando quelle che ritiene le lungaggini del controllo democratico, sarebbe deprecabile. Bisogna però essere realisti e forse meno creduloni. La distinzione è illusoria. La liberalizzazione vuol condurre alla privatizzazione, persino quando si lascia la parte maggiore della proprietà all’ente pubblico (v. Swisscom) o persino quando l’intervento statale, ritenuto determinante, si fa massicciamente presente in termini di denaro pubblico investito (v. Swissair-Crossair). La privatizzazione, poi, non riguarda solamente il servizio pubblico (telecomunicazioni, poste, ferrovie, aziende elettriche, sanità, scuola ecc.) consegnato alla gestione privata; essa è anche l’atteggiamento che pretende di fare dello Stato un’azienda al servizio di interessi corporativi oppure retta con gli stessi criteri di un’azienda privata, sostituendo alla nozione di «profitto collettivo» i metodi applicati per il «profitto privato». Il trasferimento dei poteri La sequenza globalizzazione, liberalizzazione, privatizzazione sia a livello macrocosmico (il mondo, l’organizzazione economica continentale, la nazione) sia a livello microcosmico (il cantone, il comune) ha un comune denominatore. Esso è costituito: dallo svuotamento della politica a favore dell’economia, paradossalmente promosso e voluto dagli stessi politici (e quindi trionfo delle esigenze particolari dell’economia su quelle che dovrebbero essere le scelte d’interesse pubblico della politica); dal trasferimento di poteri o prerogative dello Stato verso organismi privati o interessi privati (e quindi progressivo indebolimento dello Stato, dentro e fuori i suoi confini); dallo sradicamento sistematico della «dimensione territorio» (e poiché democrazia, libertà, uguaglianza, diritti, presuppongono una dimensione territoriale e la cittadinanza stessa non ha senso senza questa dimensione, viene meno il senso di appartenenza e cresce quello di impotenza e di insicurezza). Non è teoria. Si possono indicare molti casi recenti, ognuno collocabile nei punti indicati. Ad esempio: deduzioni fiscali volte a favorire i profitti e a indebolire le disponibilità finanziarie pubbliche; non tassazione degli utili da capitale motivata con la mobilità dei capitali e la loro possibile fuga contro tassazione del reddito da lavoro identificabile; modalità dei trasporti imposta da gruppi di potere privati nazionali o internazionali grazie alla debolezza dello Stato e all’esclusione dei costi affibbiati al pubblico locale (caos, insicurezza, inquinamento, salute); scuola da assegnare ad agenzie particolari per fini privati; energia elettrica da sottrarre all’ente pubblico per alimentare profitti privati; assicurazioni sociali costruite sulle opacità e incertezze dei fondi borsistici; inquinamento ambientale da mercanteggiare vendendo quote di possibile inquinamento; case da gioco per sostituire le responsabilità della giustizia distributiva; banche, anche cantonali, da sganciare dall’economia territoriale per buttarle in nome dell’universalità sulla ricerca del massimo profitto con il maggior rischio (v. BancaStato e prodotti derivati). Tre grandi minacce Con la globalizzazione e le sue due manopole, la liberalizzazione e la privatizzazione, ci sono quindi in pratica tre grandi minacce che stanno sovvertendo ciò che ancora rimane di senso comunitario, di responsabilità dello Stato, di servizio pubblico. Sono «altre autorità»* che stanno spodestando quelle legittime con il loro stesso concorso. • Le autorità di mercato. Tutto è diventato mercato e il mercato legittima tutto. Questa subordinazione incondizionata ha ridotto sia l’autonomia politica dello Stato sia la sua capacità ad assumere decisioni indipendenti o incisivamente correttive. Il mercato dei capitali e la sua estrema mobilità concessa dai politici, diventa non solo condizionante ma ricattante: se non privilegi il capitale (fiscalmente o penalmente), il capitale va altrove. Vale a livello internazionale ma anche intercantonale (v. concorrenza fiscale). L’estensione del mercato dei beni e dei servizi riduce al minimo altre possibilità di interventi protettori o correttori (v. agricoltura, v. trasporti, v. ambiente). Le fusioni, acquisizioni, partecipazioni incrociate per meglio conquistare i mercati generano forti poteri «esterni» che non solo hanno bilanci superiori a quelli di uno Stato ma possono determinarne le scelte politiche, renderle inutili (spostamenti su altri fori giuridici e politici), svuotare di ogni contenuto il rapporto tra sede e territorio (deterritorializzazione: gli interessi prioritari non sono più quelli locali; emblematico il caso delle banche, sia a livello nazionale che cantonale), operare la distinzione tra luogo di produzione e luogo di decisione (è sempre stato un punto debole dell’economia ticinese; ora è fenomeno generale della globalizzazione). • Le autorità morali. Sono movimenti religiosi (v. scuole) o movimenti genericamente definiti «etici» o «ambientalisti» o le stesse grandi aziende multinazionali o le grandi banche che si imbellettano con l’etica, che pretendono di sostituirsi alla «politica». Essi cercano di investirsi di un potere lasciato vacante dallo Stato debole o ideologicamente «privatizzato». Aggiungiamo ciò che scriveva su The economist (17 novembre 2001) l’economista David Henderson: «Non è un progresso per la democrazia quando la politica pubblica è privatizzata e i consigli di amministrazione si assumono il compito di soppesare gli obiettivi sociali, economici, ambientali in competizione gli uni con gli altri. Quello dev’essere il lavoro dei governi, che rimangono competenti per farlo. Portarsi garanti della legge e dei diritti fondamentali della persona è compito dello Stato. Credere che ciò possa essere compito della Shell o di Greenpeace, per poco che se ne intendano, è credere a Babbo Natale». • Le autorità illecite. È superfluo dilungarsi se abbiamo sott’occhio le esperienze degli ultimi anni. Le mafie esercitano una forza destrutturante e un potere privato, incuneandosi dovunque proprio grazie alla globalizzazione e alla liberalizzazione dei mercati finanziari. L’aspetto tragico, come dimostrano pure i fatti locali, è che finiscono per beneficiare di un riconoscimento sociale di quasi-legittimazione perché portano soldi o perché sostengono e «promuovono» cultura. Saranno inevitabilmente anche i più interessati alle case da gioco. Un economista americano, Phil Williams, dell’Università di Pittsburgh, ha dimostrato con un’ampia indagine che le relazioni tra le organizzazioni criminali e gli Stati non sono sempre conflittuali: esse vanno dall’ostilità all’accettazione tacita, alla collusione più o meno spinta. Quasi sempre è la priorità data all’interesse economico, soprattutto per lo Stato che preferisce essere biscazziere, a fare la differenza. È una conferma, non è una novità, neppure alle nostre latitudini. Promuovere la resistenza L’analisi può apparire pessimista. Lo è. Casi recenti (sempre emblematico quello di Swissair) hanno fatto dire: «abbiamo avuto la dimostrazione della inevitabilità dello Stato come unico credibile ed efficace fattore di regolazione, pronto nonostante le evoluzioni avvenute a riattivare il suo potere ceduto». Non può essere un’attenuante perché non si tien conto come la graduale privatizzazione del potere generi cambiamenti sempre più irreversibili nelle strutture giuridiche e istituzionali dello Stato. Essi provocheranno il deperimento continuo del controllo democratico (svuotamento della democrazia) e della cittadinanza (svuotamento dei diritti politici). Indicando gli aspetti negativi di ciò che sta capitando si può promuovere perlomeno la resistenza. Denunciando queste evoluzioni e le conseguenze che comportano alcuni altolà sono già stati pronunciati (anche in Ticino) e si dovranno ancora pronunciare. * Questo concetto e la distinzione che segue sono suggerite dall’anticipazione dei contenuti di un libro di prossima pubblicazione di Thomas Biersteker e Rodney Bruce Hall, dell’Università di Brown, con il titolo significativo «The Emergency of Private Authority», edito da Cambridge University Press.

Pubblicato il

01.02.2002 03:00
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